Quel disagio sociale che mette in crisi il modello Milano
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Milano ha perso la fantasia del pensarsi e disegnarsi. Pare in preda alla afasia che prende anche le città quando non sono in grado di visualizzare i volti che le abitano e gli episodi sociali che le attraversano cambiandole. Quello che non vediamo sottotitola Balducci l’Annale della fondazione Feltrinelli La città invisibile. Raccontando Don Colmegna alla Casa della Carita Andrea Donegà rende visibile l’invisibile collocandolo al Centro dei margini. Eppure, dal margine di Rho-Pero con l’Expo era partito il sindaco Sala con la fantasia di ridisegnare e conquistare il centro. Quel primo cerchio della «città premium» di cui scrive Di Vico che non «sgocciola» più verso il basso coesione ed opportunità diffuse. Come se le economie dei flussi, dal real estate ai turismi e la filiera degli eventi che macina successi, dicono i soliti indicatori tranquillizzanti, disegnassero una «città murata» e rinserrata in un primo cerchio fantasmagorico in preda all’allegoria del suo celebrarsi con i fantasmi del perturbante che la circondano.
Nel salto di secolo che ha visto non solo l’Expo, ma anche il Covid è come se si fosse ingrippato quell’interclassismo ambrosiano per cui si arrivava nella città spugna Milano dal margine territoriale o sociale convinti di poter arrivare in centro. Per ragionare del disagio che cresce sotto la pelle della città dobbiamo cambiare punto di vista. È la città degli invisibili che bussa alla porta della città verticale ponendo le sue domande. Milano più che in crisi, è al tornante di una lunga metamorfosi e il modo in cui lo si affronterà è di grande importanza non solo per sé stessa, ma anche per le città medie che gli fanno corona.
I nodi della Milano globale parlano anche a Bergamo e a Monza, a Lecco a Como o a Brescia, a quell’Italia intermedia che della coesione ha sempre fatto la sua differenza, ma che oggi vive anch’essa le contraddizioni di una «piccola globalizzazione» con correlato avvio di polarizzazione sociale.
È un modello di crescita diffuso non soltanto di Milano, che oggi pone il problema di ridefinire i termini del patto non scritto tra mercato e municipalismo. Non ci sarà sostenibilità o lotta alle diseguaglianze senza questo ripensamento. Occorre piegare lo spazio di rappresentazione e istituzionale dalla città verticale transnazionale a una dimensione più orizzontale, che includa nella Milano globale non solo i cerchi sociali delle élite professionali e manageriali o della composizione sociale dei quartieri creativi già pendolanti nei flussi globali, ma anche i cerchi esterni di una città infinita composta di piattaforme manifatturiere e da una dimensione urbano-regionale di città-distretto e città medie.
Milano guardata oltre le sue mura è una piattaforma urbana e industriale le cui reti e funzioni già oggi connettono ciò che i perimetri amministrativi dividono (si pensi solo alle utilities come A2A). Una città estesa la cui composizione sociale va vista in modo unitario, che esprime domande e interessi, bisogni di qualità
della vita, di investimenti sociali in reti e infrastrutture, non riducibili a quelli delle sole popolazioni flusso che ne popolano i quartieri più vivaci. Ripensare una composizione sociale urbana allargata, può ridare ossigeno al far politica mettendosi in mezzo agli automatismi dei flussi.
La Milano manifatturiera in transizione, dei ceti medi e dei ceti popolari scomposti e ricomposti, della forza lavoro immigrata che fa funzionare la piramide terziaria nel nucleo centrale, abita soprattutto la città liminale delle periferie e dell’urbano-regionale. Innovare è anche abbassare lo sguardo all’orizzontalità sociale, altro dal decantare il medesimo modello di città murata anche nei nodi urbani e nell’urbano diffuso.
Una città non è guidata solo dai sindaci, ma da una poliarchia di poteri, di corpi intermedi e di un pluralismo che oggi comprende non solo le rappresentanze novecentesche o il Terzo Settore, ma autonomie funzionali come università, utilities o fondazioni, oppure imprese leader territoriali, e più sotto un pluralismo di gruppi e reti associative.
Quale deve essere il contributo di questi tessuti intermedi nel trasformare le contraddizioni del «modello Milano» in altrettante agende di rigenerazione? Domanda cara ad Antonio Calabrò. Ma che da sola non basta se Milano non recupererà le virtù civiche e la passione sociale che ha incluso allora la Fiumana del volgo disperso dipinta da Pelizza da Volpedo. Mai come oggi occorre fantasia politica e di rappresentanza nel rasoterra delle opportunità che chiede la nuova fiumana che si è fatta moltitudine.