La terza generazione di autonomi nasce nel segno del digitale
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Sono tempi di volatilità delle passioni e di materialità dei lavori nelle piattaforme territoriali. A ogni sussulto elettorale, il territorio si colora di mappe delle differenze nella filiera urbano-regionale. Ci si interroga sulla società frammentata nella composizione “tecnica” del produrre e dei lavori, tentando una composizione “politica” non più data. Un tempo fissata dentro lo schema delle classi della società fordista, delle sue rappresentanze sociali e politiche e del welfare state. Emblematica, in questo ossimoro tra composizione tecnica e politica, la nebulosa delle partite Iva. Sono raccontate o come la Vandea del contado dei capitalisti molecolari o come start up della creatività e delle smart city in divenire. Quotate spesso nel cielo della politica come ceti medi in declino o nuovi ceti affluenti.
Nel mettersi in mezzo a questa schizofrenica lettura teniamo conto dell’osservazione di Bagnasco che raccomanda di usare con cautela, per la nebulosa della cetomedizzazione (De Rita), sia la situazione di “classe” che quella di “ceto”. Continuiamo a leggere il lavoro indipendente con occhiali novecenteschi. Ha continuato a cambiare pelle, nella città e sul territorio con una stratificazione interna che lo rende tutt’altro che omogeneo nella lettura di “classe”. Con il declino della produzione di massa, il lavoro autonomo si è dapprima ripresentato, a cavallo del secolo, come base diffusa della produzione decentrata e flessibile del primo post-fordismo nei distretti produttivi orientati all’export. Dai primi anni ’70 ai ’90 è stata l’età dell’oro. Ma inizia anche l’epoca della prima transizione terziaria in cui, sotto il cappello della new economy e la retorica della classe creativa ispirata da una globalizzazione piena di opportunità, si nascondeva la “scintilla della precarizzazione”.
Erano quelle le figure che Sergio Bologna denominò lavoratori autonomi di seconda generazione e con Rullani fissai nell’ossimoro “capitalismo personale”. Questo intreccio di lavoro autonomo di prima e seconda generazione raggiunse la punta di 6 milioni di partire Iva nel 2004. Con il dispiegarsi di una globalizzazione ben più selettiva dopo il 2008, si assiste a una nuova articolazione interna del lavoro indipendente, accompagnata da una significativa contrazione. Il salto d’epoca ha colpito i settori dell’economia in metamorfosi, mettendo fuori gioco più figure professionali sia nel campo del lavoro subordinato sia nel lavoro autonomo. Numerosi fattori che avevano favorito la tenuta del lavoro autonomo sono stati erosi dall’affacciarsi di nuovi paradigmi produttivi. La diffusione dell’e-commerce e delle piattaforme digitali in alcuni campi (es. mobilità, accoglienza, socialità, consumo), lo sviluppo di canali remoti nel rapporto tra organizzazioni e clienti (vedi assicurazioni, banche, compagnie aeree), la rivoluzione nella logistica e nella distribuzione, la smaterializzazione dei contenuti culturali, l’emergere di nuove tecnologie organizzative hanno impattato sul mondo del lavoro autonomo. Questa mutazione ha avuto conseguenze sul piano dell’appartenenza di ceto e della rappresentazione sociale, con un diffuso senso di declassamento, specie nell’ambito del lavoro autonomo tradizionale (commercio, artigianato, agricoltura).
Ma attenzione, non è tutto Vandea o rancore come dimostrano il fenomeno dei ritornanti in agricoltura sostenibile; la ricerca Symbola che verrà presentata a Mantova sugli “Artigiani del futuro”, substrato diffuso della green economy; e una recente ricerca Aaster in Lombardia sui “Distretti del commercio. Piattaforma sociale e di rigenerazione urbana”. Così come non è il paradiso il magma dei lavoratori della conoscenza “innovatori sociali” e creatori di start up nei settori high tech e playmaker urbani alla ricerca di reddito e senso per una ecologia della mente nel tecnocene che si fa militanza ambientale nell’antropocene. Il paradigma dell’economia della conoscenza globale in rete a base urbana ha generato una terza generazione di lavoratori indipendenti segnata dalla riorganizzazione digitale della società e dell’economia. Sono messi al lavoro nella «città infinita dei tanti calcolati dai pochi calcolanti padroni dell’algoritmo», innervando la modernizzazione del capitalismo delle piattaforme. In questi cambiamenti vi sono quanti li usano, quanti li subiscono e quanti ne vengono spiazzati. Nella “terza generazione” vi sono i virtuosi dell’algoritmo, quelli che istruiscono le macchine digitali, i creativi che ne territorializzano gli usi, gli intermediari della tecno-Kultur che si fa Zivilisation. In alto quelli che contano, in mezzo i lavoratori della conoscenza, in basso l’ultimo miglio di quelli che fanno le consegne. Si disegnano tracce di classi sociali. Ed è qui, nel magma di ceti discendenti e neoaffluenti di una nuova composizione sociale urbano-regionale che non fa ancora racconto “in soggettività” di orientamenti, che politica e rappresentanze devono mettersi in mezzo per capire lo spirito dei tempi.