Oltre le mura dell’impresa. Il territorio conteso tra flussi e luoghi
Una recensione di Alberto Magnaghi Machina-Deriveapprodi
Il libro, che contiene approfondimenti sulle regioni del Nord Italia e una lettura d’insieme delle trasformazioni recenti di ciò che gli autori, euristicamente, chiamano «capitalismo intermedio», ritorna sui sentieri già battuti da questo gruppo di ricerca. Si propone qui una lettura esplorativa e interrogante dei cambiamenti della società nelle piattaforme produttive del Nord Italia, che mette sotto osservazione i processi di ibridazione tra base manifatturiera e logica «iper-industriale» (concetto che gli autori recuperano da Romano Alquati) di messa al lavoro della vita sociale e quotidiana dei territori, la scomposizione delle figure sociali e i filamenti di ricomposizione, gli effetti accelerativi indotti dalla crisi pandemica. Un libro denso, che affronta molti nodi aperti del nostro sistema in una prospettiva attenta tanto ai lasciti della storia recente quanto alla discontinuità e alle cesure. Per metterne a fuoco pregi ed eventuali aspetti problematici abbiamo richiesto una recensione all’architetto e urbanista Alberto Magnaghi, presidente della «Società dei territorialisti», che con Aldo Bonomi intrattiene da decenni un confronto aperto e franco su molti dei temi affrontati dal volume.
* * *
«Se la potenza estrattiva dei flussi dell’economia-mondo produce crescente reazione e chiusura dei luoghi in comunità rancorose, tocca lavorare, per quel che si può, da una parte per produrre nei flussi una qualche coscienza delle logiche estrattive, dall’altra per accompagnare i luoghi ad assumere “coscienza di luogo” come capacità dialettica di esprimere uno spazio di rappresentazione collettiva rispetto ai flussi» (pag 9)
Mi piace considerare questo libro un approdo maturo di molti anni di ricerche da quando Aldo, nel lontano 1984 propose a me, Lapo Berti, Sergio Bologna e Walter Ganapini di fondare l’AASTER, (Associazione agenti per lo sviluppo del territorio), con un forte richiamo agli operatori di comunità degli anni ‘50 e alle ricerche in corso sullo sviluppo locale. Il libro di Aldo Bonomi e dei suoi collaboratori del Consorzio Aaster è una lettura impegnativa: per il linguaggio pieno di invenzioni semantiche, ma soprattutto perché è un racconto, in cui alle solide basi metodologiche di anni di ricerca/azione svolta dall’Aaster attraverso commesse di ricerca concrete di enti pubblici e privati, si sovrappone la tensione militante a rappresentare «in filigrana» il conflitto fra flussi e soggettività espresse dai luoghi. Questo conflitto è trattato da Aldo con la ricerca continua di vie di ricostruzione di istituti di intermediazione politico-istituzionale; verso la costruzione di una «società intermedia» fra il calare dei «flussi economico-finanziari» dall’alto (che, impattando sulle diversità urbane infraregionali e regionali dei «luoghi», inducono nuove forme diversificate di produzione e di organizzazione del lavoro, dello spazio e deli governo del territorio), e le «soggettività sociali» che, dalla complessità della riorganizzazione della fabbrica sociale e le sue mille forme del rapporto lavorativo post o neo-industriale, residuano forme di autorganizzazione, di conflitto, di autogoverno territoriale e infine di autoprogettazione di nuove forme dell’abitare e del produrre legate alla rinascita dei luoghi.
La scrittura è impegnativa da decifrare proprio per questa caratteristica oscillazione (dialettica?) fra le due facce della medaglia: quella che nei «Quaderni del territorio»[1] chiamavamo «uso capitalistico e uso di classe del territorio», e che orasi da come tensione onnipresente fra flussi e luoghi, è oggetto di un unico racconto integrato, con prevalenza della componente della descrizione delle trasformazioni tecnico funzionali dall’alto, inserendo, in molte analisi, la finalizzazione del racconto alla crescita della soggettività dei luoghi. Ma vengo al testo.
La sua importanza sta proprio nel descrivere in modo approfondito e documentato la metamorfosi della organizzazione capitalistica del territorio dal modello della «città infinita» (un modello ancora «centro periferico» ereditato dal decentramento della «citta fabbrica» fordista, di una regione urbana caratterizzata da un centro di comando e la sua periferia residenziale/produttiva diffusa), al modello della «città digitale», organizzata regionalmente in piattaforme territoriali strutturate e differenziate, su cui si stende una più complessa gerarchia regionale e interregionale della organizzazione produttiva policentrica del Nord Italia (metamorfosi anticipata sinteticamente, ma con grande chiarezza, nel testo di Aldo nell’Enciclopedia Treccani). Quali i caratteri di questo passaggio al «capitalismo neoindustriale» territoriale («iperindustriale» secondo Romano Alquati)?
Provo a sintetizzarli:
a) L’accresciuto ruolo dei fattori telematici nell’organizzazione dei flussi decisionali, applicato «in modo industriale» alla nuova centralità dei fattori riproduttivi della vita quotidiana nel processo produttivo (cibo, salute, ambiente, abitazione, cultura, saperi, comunicazione, servizi)[4], ha portato a includere nel governo diretto del ciclo produttivo aree agroforestali, reti di piccole e medie città, aree montane, sistemi ambientali (oltre alla ricomposizione policentrica delle «industrie urbane», dei sistemi metropolitani), mettendo al centro il territorio come «spazio di ricomposizione» (pag. 17); superando un modello centro-periferico, verso un modello policentrico a scala regionale e interregionale dettato dal nuovo ordine di un continuum fra città-distretto e reti[5], e le filiere logistiche digitali dei flussi globali; una gerarchia del «capitalismo di territorio» articolata regionalmente in un sistema interconnesso che ridefinisce il ruolo di comando della città centrale non più su una periferia seriale e «infinita» ma su «piattaforme produttive» [6] strutturate con ruoli intermedi differenziati, che porta alla «neoindustrializzazione» del territorio regionale e interregionale (il «nord intermedio») [7];
b) La dinamica «flussi-luoghi» in questa «differenziazione» di ruoli delle piattaforme territoriali tiene in conto le peculiarità dei luoghi stessi, sussumendole nella riorganizzazione dei processi produttivi: identità ambientali, paesaggistiche, urbane, socioculturali.
«La metamorfosi non è dunque un flusso indistinto ma si caratterizza per forme produttive, composizione sociale e geografie dello sviluppo e del “fare società” diverse fra loro»; in questa metamorfosi, i flussi trasportano informazioni, comportamenti, e risorse, i luoghi come «cornici territoriali» vengono attraversati e ridisegnati dal lavoro tecno-produttivo. Questa differenziazione è tanto più accentuata quanto più i fattori riproduttivi della «capacità umana vivente» (Alquati) diventano centrali nella riorganizzazione del nuovo sistema produttivo territorializzato;
c) La pandemia ha accelerato questo processo modificando la distribuzione e la morfologia territoriale delle attività produttive (scomponendo il lavoro, modificando il ruolo delle abitazioni sia nelle forme dell’abitare che del produrre – smart working, che «sta lasciando semideserti i grattacieli»), degli spazi aperti urbani, dell’agricoltura periurbana, delle piccole città, della campagna e della montagna, dei servizi ecosistemici, ecc.)
Sulla base di questi caratteri della metamorfosi verso la città digitale delle piattaforme territoriali, nel libro viene descritto in modo approfondito e differenziato il processo di formazione, la morfologia e la gerarchia di questa nuova fabbrica socio-territoriale nel Nord del paese. Questa descrizione approfondita riguarda la trasformazione dei poli metropolitani, la morfologia socio-territoriale del capitalismo delle piattaforme del Nord (a partire dal «triangolo interno» del Lover – Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, con al vertice Milano); con importanti approfondimenti che specificano le peculiarità dei processi rispetto ai singoli territori e la riformulazione della loro struttura gerarchica e al contempo policentrica: sulle «piattaforme lombarde» con particolari ricerche su Milano (Simone Bertolino e Albino Gusmeroli); sul policentrismo metropolitano incompiuto del Nord Est (Luca Romano), sulla complessa riorganizzazione del «modello emiliano» (Bertolino e Gusmeroli); sul «laboratorio di Torino, il Piemonte e la motor valley» (Salvatore Cominu).
Fa parte di questa sistematica descrizione del «capitalismo territoriale» la rappresentazione del profondo cambiamento della composizione sociale del lavoro (quella che si chiamava «composizione tecnica di classe») che popola le nuove piattaforme del capitalismo intermedio. Questa descrizione, spostando l’asse centrale della produzione verso la complessità dei processi riproduttivi, estende la descrizione dai variegati rapporti di lavoro, oltre che ai problemi di genere e di etnia, alle nuove forme dell’abitare urbano e rurale, dell’alimentazione, dell’ambiente, della cultura, dei consumi, ecc. Le ricerche Aaster offrono qui ampi approfondimenti sulla composizione sociale diffusa della nuova fabbrica: l’aristocrazia delle nuove leve tecnologiche, la moltitudine dei lavori terziari, la «servitù della gleba» delle piattaforme, il lavoro autonomo di terza generazione e cosi via.
Ma, a questo punto, viene la seconda faccia del libro. Qui Aldo scrive (pag. 42): «Mappare o suggerire topografie e schemi per leggere il capitalismo sul piano “oggettivo” dei flussi e delle geografie produttive, è tutto sommato la parte più semplice e più scontata da mappare. Cogliere la composizione soggettiva che viene avanti è il vero terreno su cui soprattutto a sinistra si è scoperti».
A me (come spero anche a Aldo e ai suoi ricercatori dell’Aaster) la parola «piattaforma», usata per designare un’area vasta di territorio, fa abbastanza orrore. Rappresenta infatti la riduzione economicista di una lettura che interpreta il rapporto flussi-luoghi come una sottomissione di questi ultimi sia nella loro dimensione oggettiva che soggettiva, a divenire funzionali, con l’uso «industriale» dei loro «patrimoni sociali», culturali, ambientali, paesaggistici, urbani, all’aumento di produttività del capitale globale, con nuove forme di inclusione e sfruttamento. E qui viene la peculiarità del metodo espositivo del libro (e la difficoltà di lettura che ho richiamato all’inizio) laddove, per dare una speranza di superamento dell’orrendezza delle piattaforme, intreccia in modo organico una interpretazione dei germi di possibili esiti alternativi dei processi capitalistici descritti, introducendo alcuni trattini: oltre a flussi-luoghi, smart city-smart land, green economy-green society, marginalità- centralità.
Su questo tema Aldo dichiara che «siamo al balbettio».
Tuttavia Aldo stesso, per superare il balbettio, avanza letture e interpretazioni della parte attiva della «moltitudine» che incontra nelle ricerche dell’Aaster, entro un’ipotesi politica: che la soggettivazione degli attori sociali della neo-fabbrica non possa avere un esito senza la ricostituzione di una società di «mezzo», intermedia , a mezzo del trattino fra flussi e luoghi, fra smart city e smart land; «mettendosi in mezzo» con «nuove soggettività emergenti dai luoghi», se «si vuole che il capitalismo diventi umanistico». Si tratta di «costringere al tavolo negoziale i proprietari dei sistemi di automatizzazione dei comportamenti» (sistemi di calcolo prescrittivi attraverso i big data e le piattaforme dell’intelligenza artificiale). Con questo obiettivo può andare in scena «l’accompagnamento dei luoghi ad assumere coscienza di luogo, come la capacità dialettica di esprimere uno spazio di rappresentazione collettiva rispetto ai flussi» (introduzione dei ricercatori Aaster pag 9).
I potenziali «rivoltosi senza libro» (senza memoria della coscienza di classe) potrebbero essere i soggetti della «crescita di una coscienza di luogo, che si appoggi ai “filamenti” di nuova istituzionalità che vengono avanti nello spazio di mezzo» (pag. 16).
Ma, dando per buona questa ipotesi, ci si può domandare: chi si mette in mezzo? Non è rischioso accelerare la costruzione di una società dell’intermediazione a fronte di una debolezza dei processi di autonomizzazione (e dunque di forza di interlocuzione o di conflitto) delle comunità di base? Il viaggio della ricomposizione della «comunità di luogo» che Aldo descrive è lungo e irto di difficoltà, e qui dovremmo prioritariamente applicarci. È il problema che abbiamo affrontato, come Società dei territorialisti, ad esempio, con il manifesto di Camaldoli sulla nuova centralità della montagna[8]. Come si può pensare a una nuova relazione non gerarchica fra città e montagna (metro-montagna) se non si ricostruiscono i soggetti collettivi di autogoverno della montagna che abbiano la forza costituente di nuove «comunanze» in grado di trattare con la città? È lo stesso problema che affrontiamo nelle ricerche in atto sulle comunità energetiche[9], dove la parola «comunità» può venir impropriamente usata nella visione economica di imprese o cooperative che producono e vendono energia, oppure riferita a un processo di «autoproduzione e consumo» di una comunità territoriale che va verso forme di autogoverno e di democrazia locale.
Dunque, chi tratta nuove relazioni non gerarchiche? Come fanno i corpi intermedi attivi nei rapporti fra flussi e luoghi (autonomie funzionali, università, fondazioni bancarie e di comunità, reti sanitarie e del welfare, ecc.) a «negoziare per conto di comunità locali e lavoratori», a rappresentare le comunità di luogo, se queste sono disperse, deboli o non esistono?
Torniamo allora al «principio territoriale» di Olivetti[10]. Laddove la «comunità concreta» è il «primo livello fondativo» della decisione politica, finalizzato al benessere degli abitanti-produttori, che poi può riferirsi, nella sua realizzazione, alle strutture funzionali di livello superiore. Dunque solo rafforzando o costituendo le comunità di luogo «i trattini» possono pencolare verso il secondo termine: smart lands, comunità di cura, green societies, green communities, «laddove le virtù civiche tengono assieme paesaggio, bellezza, agricoltura, in un distretto culturale evoluto che precede l’economia» (Bonomi, «Microcosmi», 19 novembre 2021).
Dunque occorre, come peraltro propone Aldo citando Esposito, una «prassi costituente» in grado di «redistribuire chance di vita e saperi pratici per rafforzare capacità diffuse di progettazione sociale […] coagulando le deboli tracce di comunità di cura, di operosità e anche di conflitto» (pag. 48). Deboli in quanto la domanda sociale rimane frammentata «perché si scontra con la drastica incapacità [..] di articolare le istanze dal basso in grandi progettualità da parte dei poteri intermedi, siano essi sociali o istituzionali» (pag. 49); inserire i nuovi attori emergenti dai luoghi e i nuovi lavoratori della conoscenza in nuove forme della rappresentanza; ripensarsi come «comunità di destino» esistenziale; sviluppando una capacità diffusa delle comunità di cura «di contaminare la comunità operosa degli interessi imprenditoriali» (pag. 51). Non a caso Aldo Bonomi fa parte attiva del Comitato scientifico della Società dei territorialisti[11], dove penso che, nelle applicazioni metodologiche e progettuali del «Principio territoriale»[12], si sia posta qualche base metodologica per definire almeno le condizioni della democrazia di comunità, per trasformare le orribili «piattaforme» nelle qualità paesaggistiche, abitative, ambientali e produttive delle «bioregioni urbane».
Per tornare a una finalizzazione umana (il benessere degli abitanti dei luoghi), e fare sì che la mediazione della «società di mezzo» sia condizionata dagli obiettivi delle «soggettività dei luoghi», organizzate nelle «comunità territoriali», e che non ne riassorba le risorse dentro la neo-fabbrica, occorre dispiegare più energie sociali e disciplinari nella con-ricerca (o ricerca azione). Avanzo qui tre condizioni prioritarie:
1) Che le comunità di cura siano in grado di produrre forme e istituti di autogoverno del territorio come bene comune (commoning); la crescita della «coscienza di luogo» dovrebbe a questo fine arrivare a ricostruire la capacità soggettiva degli abitanti/produttori (ora clienti, consumatori e produttori dipendenti) a autogovernare i fattori riproduttivi ora al centro della produzione delle piattaforme; anche valorizzando le esperienze di responsabilità socio-territoriale delle imprese;
2) Che questa capacità sia data da una riappropriazione da parte delle comunità di cura di saperi contestuali, prodotti dalla conoscenza profonda dei valori patrimoniali del territorio (la «molla caricata nei secoli» di Becattini), riutilizzati ora prevalentemente in termini di risorse economiche dalle piattaforme produttive;
3) Che il modello insediativo delle piattaforme sia sottoposto ad una riprogettazione di tutti gli elementi costruttivi dello spazio regionale, a partire dalla messa in valore del patrimonio, verso nuove relazioni ambientali «coevolutive» fra insediamento e ambiente, nuovi patti città campagna fra abitanti urbani e agricoltori, nuovi sistemi produttivi locali finalizzati alla valorizzazione del patrimonio, reti autonome fra città verso forme di federalismo municipale, e cosi via.
In conclusione, la debolezza della seconda parte dei trattini che Bonomi denuncia va affrontata con una moltiplicazione di ricerche multidisciplinari e azioni multisettoriali e con la costruzione di relazioni orizzontali fra le molte energie socio-territoriali in crescita in ogni luogo (movimenti, associazioni, comportamenti socio-produttivi) che affrontano in forme autonome singoli aspetti della transizione eco-territoriale, per supportarle a realizzare forme di autogoverno locale in grado di condizionare «dal basso» gli obiettivi «della società intermedia». Come scrive altrove Bonomi[13], «mettendosi in mezzo, fra flussi e luoghi nell’ipermodernità dell’antropocene e del tecnocene, (compito) che ci spetta come animatori della coscienza di luogo che costruisce e pratica comunità concrete». In questo percorso i risultati delle ricerche poliennali dell’Aaster sulle nuove strutture e geografie produttive del capitalismo di territorio possono costituire una solida base metodologica e conoscitiva.