La povertà da pandemia spiegata coi flussi
Il sociologo Aldo Bonomi a SenzaFiltro: “Bisogna immaginare e sperare che il Recovery Fund venga usato per ripensare un welfare dal basso, di tessiture sociali e di nuova coesione”
di Bruno Perini – Informazione senza filtro
Quali sono le aree della società travolte dalla pandemia che sono scivolate verso la povertà? Chi può dirsi garantito o protetto dal sistema, e come va interpretata la dualità garantiti/non garantiti? Vale ancora la strumentazione teorica di matrice marxista della divisione in classi della società?
Aldo Bonomi, uno dei più eterodossi tra i sociologi del lavoro italiani, in questa conversazione che gli abbiamo proposto per SenzaFiltro scarta subito di lato e mi dice: “Chiediti perché da tempo, oltre che lavorare sulle ricerche del sindacato, guardo con molta attenzione alla Caritas”.
Dall’osservatorio dei Centri di ascolto della Caritas, le persone assistite nella fase di prima emergenza sociosanitaria (69 giorni di lockdown) sono state poco meno di 450.000, delle quali ben il 30% ascrivibile tra i nuovi poveri della pandemia. Parliamo di donne, di tanti giovani, di famiglie con minori, generalmente accomunate da condizioni lavorative precarie, formali, informali o intermittenti; ma anche cassintegrati, autonomi, artigiani e commercianti, che si sono ritrovati a fare i conti con una riduzione drastica dei redditi e delle entrate. Anche coloro che si credevano garantiti da pubblico impiego, negli interstizi del ceto medio, hanno vissuto tale scivolamento verso il margine.
Lo scivolamento verso la povertà non ha più argini? Ancora oggi c’è chi sostiene che la dualità protetti e non protetti, su cui sono state costruite le politiche sociali, permane: da un lato il lavoro dipendente protetto e dall’altro il variegato mondo del precariato.
Non si può rispondere a questi quesiti se non si parte da lontano, se non si riflette su quello che Nanni Arrighi chiamava il sistema mondo. Scrissi allora il mio libro, Il trionfo della moltitudine. Questa parola chiave può essere sviluppata in due modi: la moltitudine come categoria politica del conflitto e la moltitudine come figura sociale. Se prendiamo questa seconda figura dobbiamo coglierne i cambiamenti: prima ancora del sistema mondo c’era il fordismo, che aveva la fabbrica come punto fermo. La centralità della fabbrica ci obbligava a ragionare in termini di classe, c’era una sorta di gerarchia: la classe operaia, la piccola borghesia, il ceto medio, e poi tutto ciò che era fuori da questo paradigma, il non protetto. Un impianto novecentesco che è radicalmente mutato. Al centro del sistema produttivo non c’è più solo la fabbrica in metamorfosi, attorno alla quale ruotava l’intero sistema produttivo. Basta pensare all’industria 4.0. Ne abbiamo già parlato altre volte: al posto di quel baricentro ci sono anche i flussi, che hanno un impatto molto incisivo sulla composizione sociale.
Che cosa sono i flussi? Proviamo a fare degli esempi.
La finanza è un flusso. E vorrei aggiungere che non è soltanto una sovrastruttura della produzione materiale, ma incide profondamente sulla società. Il fenomeno della finanziarizzazione dell’economia, ad esempio, ha prodotto nuove gerarchie e nuove forme di lavoro. Le società transnazionali sono dei flussi che hanno esteso la produzione oltre i confini nazionali. Le migrazioni sono dei flussi, e pochi avrebbero immaginato che incidessero così in profondità sugli assetti sociali del sistema mondo e sui territori, scorporando quello che ho definito il diamante del lavoro nel suo plurale: i lavori. Per questo ho scritto di capitalismo molecolare e di società dei servizi, e mi sono inoltrato anche a osservare la terziarizzazione del lavoro verso l’alto e verso il basso del precariato.
Se capisco bene, c’è una scomposizione delle figure sociali?
Certo. Una scomposizione che ha un impatto sul territorio. Ci sono gli artigiani e i commercianti, ci sono i lavoratori della conoscenza, ci sono i programmatori degli algoritmi, e attorno c’è un territorio dei lavori che è mutato. Per semplificare, c’è stata una scomposizione della classe operaia e una crisi del ceto medio, un ceto medio rabbioso a causa di un progressivo impoverimento.
Questa immagine del territorio è forse l’elemento più visibile in una metropoli come Milano: dove una volta c’era Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia che ospitava la Breda, la Pirelli e altri colossi industriali, ora c’è l’Università; dove c’era l’Alfa Romeo ora c’è un centro commerciale. C’è stato un trasferimento di figure sociali dalla fabbrica al territorio che ha cambiato tutte le gerarchie.
Proprio così. Se vogliamo fare delle gerarchie, ci sono i primi che determinano i flussi, gli ultimi espulsi in modo permanente dal lavoro, e in mezzo i secondi e i penultimi. Tra i secondi metterei i cassintegrati, i lavoratori del terziario e dei servizi. Il limbo. Insomma ciò che resta delle garanzie di un tempo. E tra i penultimi citerei i precari, le partite Iva intermittenti più a rischio. Il COVID-19 come un flusso gelido ha attraversato questa moltitudine e ha posto l’imperativo della costruzione di un nuovo welfare.
Per la prima volta dal dopoguerra i governi hanno a disposizione denaro in quantità mai vista prima; in Europa hanno la possibilità di lasciarsi il liberismo alle spalle e sforare il debito pubblico per mettere in moto politiche sociali. Tu che ne pensi?
Tutto ciò che dici è vero, ma a mio parere bisogna ridisegnare il welfare state. Il vecchio welfare era basato sul codice Ateco: quella è una chiave di lettura superata, che non tiene conto dei mutamenti di cui abbiamo parlato; se no il rischio è che si mettano in conflitto i lavoratori in cassa integrazione con coloro che hanno bisogno di ristori per sopravvivere. Bisogna immaginare e sperare che il Recovery Fund venga usato per ripensare un welfare dal basso, di tessiture sociali e di nuova coesione dentro la moltitudine frammentata.
È per questo motivo che guardi con un certo interesse come si muove la cultura cattolica verso gli ultimi? Mi riferisco al volontariato, al ruolo della Caritas, alle politiche di papa Francesco verso l’immigrazione.
Questo è un punto centrale che mi porta su un terreno a me molto caro. Per dirla con Ulrich Beck o con Eugenio Borgna, nelle parole di Papa Francesco ritrovo un richiamo alla “comunità di destino esistenziale”. Per usare una terminologia del Novecento si potrebbe dire: depressi di tutto il mondo, unitevi. Da qui il ragionare su una parola molto evocata di questi tempi: comunità. Il welfare dal basso presuppone le tessiture sociali di una comunità di cura larga, che interroga sia le forme di rappresentanza novecentesche del sindacato e dell’impresa, sia le forme della politica. Il volontariato e la Caritas tracciano esperienze di comunità di cura che mitigano la comunità del rancore. Comunità del rancore che ho evocato, osservando lo scivolamento del ceto medio in comportamenti di chiusura, illusoriamente protetto da muri; come avviene con il fenomeno dell’immigrazione. La comunità di cura larga guarda agli ultimi, ma anche ai secondi e ai penultimi, impauriti di diventare ultimi loro stessi. Ma per capire come ricostruire la comunità di destino esistenziale, che tiene assieme lo scivolamento verso il basso dei garantiti e il dramma degli esclusi, sarà necessario ricostruire una comunità operosa, cioè disegnare modelli di sviluppo e dell’economia adeguati al cambiamento e alla ricostruzione di un welfare possibile.