La domanda non è quanto Stato ma quale Stato e quale welfare
La non-normalità. Disegnare una nuova statualità, mentre la pandemia rende evidente che non c’è tenuta senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della filiera degli invisibili
di Aldo Bonomi – Il Manifesto
Sotto la pelle dello Stato, nella società del frammento, ritrovi tracce di comunità. Liquide come il mercurio non fanno società, scomposte nel rancore, nella cura e nell’operosità.
Mai come ora queste fenomenologie interrogano la statualità.
Il condensarsi del rancore si fa sovranismo, l’irrompere dei bisogni del corpo malato chiede sanità e welfare state, le imprese e le economie chiedono aiuto per ricominciare con il codice noto del produrre per competere in scenari geoeconomici mutati.
In questa metamorfosi da covid 19 si è visto un ritorno prepotente della statualità come potere di ultima istanza sia per regole e comportamenti che per un capitalismo finito nella terapia intensiva dell’helicopter money, e per i tanti senza più moneta per mangiare.
Partendo dalle fenomenologie comunitarie che stanno sotto e chiedono più Stato, rovescerei il paradigma. Chiedendomi quale welfare, quale impresa, quale modello di sviluppo viene avanti, quale Stato vogliamo: più che sul quanto Stato occorre interrogarsi su quale Stato. Certo diverso dal nudo potere amministrativo prevalso nella lunga stagione neoliberista ed oggi al suo culmine con i Dpcm (Decreti del Presidente del Consiglio).
Anche perché ciò che stiamo vivendo mostra l’incapacità degli interventi pubblici di arrivare alle filiere degli invisibili nei meandri di una composizione sociale molecolare alla base della piramide dove nascondiamo, come polvere sotto il tappeto, la società dello scarto.
Non basta aver memoria e nostalgia del secolo breve dove la radice etico-umanistica comune tra élite produttive, lavoro e welfare state era espressione di una società dei produttori.
Anche la questione di quale Stato va posta dentro il salto d’epoca segnato dall’antropocene e dal tecnopocene.
Il motto weberiano “la proprietà obbliga” che invitava al patto tra capitale e lavoro in basso e lo Stato in alto, non basta più nell’epoca in cui “l’innovazione obbliga”.
Occorre trovare una nuova radice e mai come oggi l’innovazione obbliga a riflettere sulla pervasività della società automatica e digitalizzata nella vita quotidiana, nei lavori e nelle forme di convivenza. L’innovazione produce reddito, profitto e consenso, mette al lavoro il nostro sentire, pensare, ricordare e comunicare da parte dell’infrastruttura tecnologica e dei “padroni dell’algoritmo”.
Anche nell’affrontare l’emergenza pandemica il potere di sorveglianza diffusa della Silicon Valley, si presenta come deus ex machina del futuro. Qui vedo un vuoto di statualità che non rimanda solo alla tassazione dei big tech, ma alla sovranità sui giacimenti dei big data.
Tanti saranno i remotizzati al lavoro per riprodurre la società automatica dell’algoritmo sentendosi sulla plancia di comando. Immemori di quelli in basso al lavoro nelle polveri sottili dei lavori di riproduzione e non coscienti che smart working può anche assomigliare al vecchio lavoro a domicilio. In tempi in cui riappare l’essenzialità del rapporto tra lavoro e salute, forse occorre rimettere in mezzo l’icona del nostro umanesimo industriale: Adriano Olivetti. Che allora, ragionando più di comunità concrete che di Stato, sapeva che umanesimo d’impresa significava coinvolgere la comunità per arrivare alla questione della cogestione dentro e fuori la fabbrica.
Certo il suo fordismo dolce fu sconfitto rispetto all’Iri fattosi flusso dall’alto senza territori e con la Cassa del Mezzogiorno a Sud, a proposito di elicotteri statali dell’offerta. E con il sindacato in perenne attesa di una socialdemocrazia alla tedesca con la cogestione tra grande impresa-grande banca-grande sindacato.
Da noi abbiamo avuto una cogestione molecolare tra padroncini ed operai nelle micro imprese e tracce di comunità operosa nei distretti. Attualità nell’inattualità per chi vede l’impresa come un istituto della poliarchia sociale oltre che un’organizzazione funzionale alla produzione di merce.
Da qui la visione di un’altra statualità diffusa, che accompagna ed innerva le piattaforme territoriali con scuola, università, medicina di territorio, infrastrutture dolci, le città sino ai piccoli comuni tenendo assieme smart city e smart land.
La pandemia ha reso evidente che non c’è tenuta senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della filiera degli invisibili. Non ha retto né il fantasma del welfare state del ‘900 né la retorica del welfare aziendale, entrambi incentrati su una sussidiarietà dall’alto che delegava al basso, quando non privatizzava, con esternalizzazioni caritatevoli al terzo settore. L’impianto piramidale dei flussi induce una gara per pochi verso l’alto e per i tanti verso il basso, delegati agli uomini dei sussurri della comunità di cura. Che deve prendere voce ricostruendo welfare dal basso, case della salute, non ghetti per anziani o per il disagio psichico in una società della competizione, assieme alla medicina di territorio e di fabbrica, mai così attuale.
Oggi sono ancora deboli tracce di comunità di cura e di operosità nella loro resilienza, esperienze destinate a rimanere oasi se non si fanno comunità larga per attraversare il deserto facendo società e dandosi risposta alla domanda di “quale Stato”. Solo con le comunità si fa testimonianza, non società, se non iniziamo a tessere e ritessere almeno una società di mezzo in grado di frapporsi tra flussi e luoghi e per ridisegnare statualità.
Vale per Confindustria che mi pare più guardare all’indietro al partito del Pil senza nemmeno tracce del Bes (Benessere equo e sostenibile) da incorporare per andare altrove.
Per le rappresentanze del capitalismo molecolare falcidiato dal lockdown ed in affanno nel ripartire. Per il commercio con la sua prossimità rivalutata e negata dalle astronavi simil Amazon e in affanno a ridisegnare servizi nelle città, sul territorio e per il turismo.
Per le rappresentanze dell’agricoltura nei campi per il lavoro, come abbiamo visto, nelle filiere e in rapporto con la grande distribuzione. E vale per il sindacato, che questa volta si trova a cogestire l’introduzione di tecnologia in alto, a negoziare, si spera con i padroni dell’algoritmo, a dar voce alla frammentazione dei lavori dentro le mura, sul territorio e nelle case del lavoro a distanza facendo anche sindacato di comunità di cura per gli invisibili.
Marco Revelli mi ha fatto giustamente notare quanto sia debole questo mio disegnare una comunità larga tra gli uomini e le donne delle oasi e le forze sociali del ‘900 che ho appena tratteggiato sperando nel venire avanti di una società di mezzo che si metta in mezzo dando voce interrogante e conflittuale nella metamorfosi che ci aspetta.
Ma qui siamo e qui ci tocca ricominciare ad andare verso un altrove, sperando di riuscire a metterci in comune.