Per i piccoli comuni la sfida è tutta dentro la modernità
di Aldo Bonomi – Il Sole 24Ore
«Piccoli comuni che devono crescere», così il Festival dell’Economia ha intitolato uno dei suoi eventi in calendario a Trento questa settimana.
Questione che riguarda in modo particolare i circa 2.500 comuni montani italiani (un terzo del totale), di cui oltre il 90% con meno di 5.000 abitanti. Li chiamiamo comuni polvere e ce ne ricordiamo solo per frane ed alluvioni lungo il tellurico Appennino o da Ovest ad Est guardando le Alpi sentinelle nella crisi climatica. A Sud si assiste al rovesciamento della storica distinzione di Manlio Rossi Doria tra terre dell’osso e terre della polpa, in cui le periferie interne dell’abbandono si fanno lentamente centri «intensi», per riprendere le parole di Franco Arminio, di ritornanza e restanza (Teti). Risalendo la penisola per sezioni orizzontali troviamo tracce del capitalismo dolce di matrice distrettuale con gli incontri a Treia di Symbola, dove si cerca una nuova sintesi tra virtù civiche e competitività inclusiva oltre il borghigianesimo. Modello che innerva anche l’Appennino romagnolo dell’agroalimentare industriale e quello emiliano del neo-mutualismo delle cooperative di comunità. Si arriva così al grande Nord in cui ad Ovest i piccoli comuni montani sono stati, qui più che altrove, egemonizzati dai due fordismi: quello della company town di Torino e quello dell’industria della neve. Non a caso qui sì è fatta letteratura dell’identità perduta con il mondo dei vinti di Nuto Revelli, la malora di Beppe Fenoglio e il «resta sempre lassù il paese» di Cesare Pavese. Proprio le Langhe sono diventate territorio di nuove sperimentazioni.
Parzialmente diverso il discorso sui piccoli comuni montani lombardi, sospesi tra la risalita a salmone dell’impresa pedemontana e un lavoro transfrontaliero, che disegna spaccature sempre più profonde tra pendii e fondivalle. A Nord Est si configurano le “eccezioni” delle province autonome, con la grande tenuta del modello sociale sudtirolese e con la ricerca di nuove istituzioni di comunità nelle valli trentine. Infine, il Nord Est del bellunese, sospeso tra l’occasione olimpica di Cortina in tandem con Milano e la potente eredità industriale cadorina per finire sul Carso dove si sperimentano nuove forme di turismo, di agricoltura di montagna e di cooperazione trans-frontaliera. Ovunque si guardi in Italia i piccoli comuni sono un presidio del territorio e della sua manutenzione. Rimane il nodo gordiano di un rapporto più equilibrato con le aree della polpa, con le pedemontane e le metropoli, facendosi «metromontagne». Non a caso la locuzione nasce in ambiente dei territorialisti piemontesi (Dematteis) dove più si è fatto sentire il rapporto problematico tra Torino fordista e le valli dei comuni polvere.
È un passaggio delicato che pone il tema del fare impresa e quale impresa, in un movimento di ricomposizione in piattaforme territoriali in cui i servizi delle economie fondamentali (abitare, salute, istruzione, ambiente) fungono da giunture e raccordi funzionali, che precedono l’impresa e il lavoro, tra comuni polvere, città distretto, città medie e aree metropolitane. Per questo occorre oggi collocare l’Irpinia e la Lucania dentro la piattaforma Napoli-Taranto-Bari in formazione, l’Appennino umbro-marchigiano e tosco-emiliano che sta sull’Av Bologna-Firenze-Roma, ma anche sugli assi coast to coast che collegano i porti tirrenico-adriatici. A Nord il grande tema è il rapporto tra il grande polmone alpino e quello meno in salute padano. In tutti i casi il passaggio da affrontare è da una visione verticale e gerarchica della vecchia distinzione tra città e montagna, ad una visione di integrazione tra diversità. Il problema delle giunture delle economie fondamentali si pone sia nei piccoli comuni, sia nelle città. La suggestione della «metromontagna» non rimanda ad una modalità surrettizia di rifare gerarchia funzionale tra smart city e outback del buon vivere in montagna. Quanto piuttosto ad una sfida tutta dentro la modernità del fare intreccio tra smart city e smart land in cui le vocazioni economiche, non mangiano un capitale sociale e demografico che non c’è più, ma si interrogano sul non ancora del come riprodurre e rigenerare il rapporto tra terra, territorio e geoeconomie. Interrogativo intorno al quale anche il festival della scienza triste ha voluto porre giustamente l’attenzione chiedendosi Quo vadis? con i piccoli comuni.