L’economia sociale mostra le crepe al Nord come al Sud
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24 Ore
Con l’iter parlamentare della legge sull’autonomia differenziata regionale siamo «all’eterno ritorno» delle differenze tra Nord e Sud. Raccontate con retoriche delle eccellenze o delle difficoltà, da un verso e dall’altro delle economie sociali redistributive. Che mostrano crepe interroganti anche in quel grande nord delle eccellenze andando dalle Langhe del barolo e della Ferrero verso l’Emilia delle motor e food valley arrivando alla Marca trevigiana del Prosecco e del capitalismo nordestino, per rimanere ai tanto celebrati campioni del Made in Italy. Proprio visto da Nord quello che si avverte è un medesimo disagio sociale e culturale: c’è qualcosa che si è rotto proprio nel tessuto istituzionale che legava mercato e riproduzione sociale. Se gratti sotto la crosta delle retoriche trovi racconti dell’inverno demografico, delle difficoltà antropologiche del mercato del lavoro, di crisi della sanità e delle difficoltà dell’abitare.
Nei territori della crescita il paradigma dello sgocciolamento, l’idea che perseguire l’eccellenza economica sia di per sé sufficiente a produrre anche redistribuzione, ha crepe vistose. Si è rotto il vaso comunicante tra coesione e competizione.
Occorre ricostruire economie sociali all’altezza dei tempi che non si limitino a tappare i buchi, ma rigenerino tessuto istituzionale orientato a universalismo e redistribuzione. Temi alti e difficili per un microcosmo. Incominciando da una idea di sociale che pur partendo dalle sperimentazioni di condense territoriali nella forma di distretti sociali fatti di Terzo Settore, imprese eccellenti socialmente responsabili, finanza filantropica o autonomie funzionali punti però, a riformulare un’intelaiatura di cittadinanza che connetta queste oasi in carovane di coesione.
Il punto è la ricomposizione dei frammenti per evitare che rimanendo tali, finiscano per accentuare la polarizzazione tra luoghi della coesione e luoghi della deriva e del margine.Viviamo un’epoca in cui fratture e metamorfosi della composizione sociale sono governate con logiche che uniscono tecnocrazia a corporativismo selettivo per nicchie o categorie emblematiche, dai taxisti agli “spiaggiati” fino agli “esodati”, agli anziani.
Tutto con bonus o bandi, dal Pnrr ai welfare locali. Ma le politiche per frammenti non sono in grado di affrontare le economie fondamentali della demografia dei lavori, della salute, della casa… Anche il paradigma della tecno-scienza e dei big data evoluti in intelligenza artificiale fa problema, nella misura in cui pur gonfiando la potenza dei mezzi, fatica a ragionare su come generare valore collettivo intrecciando questione sociale con questione ambientale.
Parlare di economie sociali significa guardare alle forme di convivenza in una «società fuori squadra» nelle città, e non solo di quelle grandi; perché le contraddizioni della società terziaria sono esondate verso le città medie e l’Italia dell’urbanizzazione diffusa, nelle città-distretto nei territori manifatturieri: ambiti sottoposti a tensioni e polarizzazioni che hanno grande bisogno di investimenti in infrastrutture e beni collettivi.
Qui una componente delle economie sociali è l’identità del capitalismo delle reti, delle utilities uscite dalla fine del municipalismo sociale novecentesco che oggi controllano funzioni ed economie fondamentali in equilibrio tra mercato e territorio.
Come si ridefinirà la mission di questa poliarchia funzionale è questione centrale se si parla di coesione sociale. Economia sociale è anche il tema del riequilibrio e dello scambio tra città e aree interne, tra centri urbani in rigenerazione e margine metropolitano a rischio di micro banlieue. Economia sociale significa anche guardare a come si produce lavoro e valore nelle filiere della fornitura dispersa sotto le punte delle imprese d’eccellenza dotate di welfare aziendale.