Smart city, la trasformazione non è un processo indolore
Si producono una trasformazione della composizione sociale, nuovi conflitti e faglie sociali: in un termine scomposizione e ricomposizione dei soggetti e quindi polarizzazione sociale
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole24 Ore
Le città sono da sempre crocevia di reti e flussi che ne cambiano la composizione sociale e ne alimentano l’intelligenza collettiva. Oggi le città sono nodi delle nuove grandi industrie che governano le funzioni del vivere collettivo, i bisogni: mobilità, formazione e ricerca, salute, energia, casa, turismo, logistica, finanza, cibo, distribuzione, ecc. Il capitalismo delle reti e delle piattaforme è l’attore trainante l’economia globale della città in rete.
Di questa trasformazione eravamo abituati a discuterne guardando fuori dalle mura delle città e trattando di quelle reti infrastrutturali che connettono tra loro le aree metropolitane o le città medie come l’Alta Velocità, mutando le coordinate spazio-temporali avvicinando le città tra loro e favorendo così il costituirsi di grandi corridoi di urbanizzazione diffusa. L’affermarsi delle piattaforme digitali, con il Covid divenute la vera infrastruttura fondamentale che regola la nostra vita quotidiana, la socialità e le reti del valore, ha trasformato il capitalismo delle reti nel vero dominus del funzionamento delle grandi aree metropolitane. E l’essenza di queste trasformazioni è stata la selezione drastica di tutti i gruppi e lavori, dai commercianti ai taxisti fino agli albergatori. Sono “quelli dell’ultimo miglio” che dalla funzione di intermediazione traevano il proprio reddito e la propria posizione nella scala sociale delle città. Il capitalismo delle reti ha spostato e concentrato in alto la funzione di intermediazione del valore su cui negli ultimi due secoli ha poggiato parte cospicua dei ceti medi e del lavoro delle città. Da qui l’importanza del rapporto tra reti ed equilibri sociali.
La mobilità delle persone e delle merci è stato il primo settore delle città ad esserne investito con il turismo alimentato dallo sviluppo delle grandi reti di trasporto e delle piattaforme di intermediazione da AirBnb a Booking. La logistica è cresciuta fino a diventare una delle economie fondamentali delle città, nella sua duplice componente delle piattaforme digitali e dei trasporti tradizionali. Scomponendo e ricomponendo la composizione sociale del lavoro su almeno due fronti.
Il primo quello dei ceti medi e del lavoro autonomo: i taxisti ne sono l’esempio, ma non certo l’unico. Si è passati nel giro di pochi anni, con un salto concentrato nel tempo, da una composizione di lavoro autonomo di prima generazione (i taxisti per l’appunto), alla crescita di un nuovo lavoro autonomo di terza generazione comandato dall’algoritmo (Uber).
Il secondo con la trasformazione del lavoro subalterno della logistica e di tutto il magma dei servizi alla vita urbana che ha costituito una sorta di neo-proletariato dai facchini ai riders. Con il corollario dei conflitti tra taxisti e autisti delle “app”, tra facchini e camionisti.
La vera questione dunque è che questi processi incidono sulla composizione sociale delle città perché dovrebbe ormai essere evidente a tutti che la “smart city” non è certo un processo indolore e certamente non un sentiero di naturale crescita diffusa di nuovi ceti medi, come qualcuno anni addietro aveva creduto parlando di città creative. Invece producono trasformazione della composizione sociale, nuovi conflitti e faglie sociali: in un termine scomposizione e ricomposizione dei soggetti e quindi polarizzazione sociale. Insomma la costruzione della smart city certo non è «un pranzo di gala». Dunque il vero problema non è chiudere le città tagliandone le reti che le alimentano, ma governare le trasformazioni. Ciò che è mancato fino ad oggi è un ruolo di mediazione da parte delle rappresentanze e della politica che hanno visto in ritardo le conseguenze di ciò che andava crescendo.