Un Piemonte attivo che cerca l’altrove oltre il presente
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Ai tanti smemorati del presentismo suggerirei un passaggio a nord-ovest verso Torino e il Piemonte. Con lenti monofocali da partito del Pil non colgono che nella attuale metamorfosi, forse, è proprio dove i colpi della transizione hanno già vulnerato il territorio che occorre volgere lo sguardo per apprendere come si attraversa la selva. Nella ex company town Torino e in Piemonte si sono sedimentate memorie, saperi, capacità per affrontare la transizione. Qui più che altrove si può capire la metafora del vuoto e del pieno. L’abbiamo usata nell’emergenza pandemica, quando capimmo che il male correva nella geografia del pieno (di flussi, merci, corpi) e tutti cercammo il vuoto. I piemontesi hanno accumulato sapere da “esperti del vuoto”, poiché hanno dovuto affrontarlo prima di altri. In primis i crateri spenti del vulcano fordista, come sistema ordinatorio nella company town e dei territori. Occorre rileggere, andando a ritroso, La città dopo Ford di Arnaldo Bagnasco, il viaggio di Giuseppe Berta tra Torino e Detroit, l’interrogarsi di entrambi insieme ad Angelo Pichierri sulle ragioni che hanno “fermato” il transito della città verso nuovi assetti economici e di autogoverno poliarchico.
Solo chi si è già confrontato con i vuoti sociali, inclusi i sindacalismi nella duplice matrice radicale (Fausto Bertinotti) e temperata (Bruno Manghi), è attrezzato per capire i nuovi vuoti che si delineano all’orizzonte, in Piemonte come nella piattaforma Lover (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) con la transizione all’auto elettrica, che impatta sulle filiere esistenti pur promettendo nuovi lavori, se sapremo ancorarli ai territori. Torino ha affrontato in anticipo il collassare della società industriale e delle sue identità tra conflitto e integrazione che consegnavano vite in esubero che la città dei servizi non includeva più. È arrivata prima a “comprendere” le contraddizioni del capitalismo delle reti nel disegnare geografie dei lavori e dei redditi. Guardando al semicerchio alpino per capire l’importanza di tutelare verde, acqua, aria e terre alte, e fare nel contempo i conti con i buchi grandi dei corridoi logistici, gli stessi che verso Milano tracciano una metropolitana ad alto e selettivo costo verso la megalopoli padana. Basta alzare lo sguardo a 360 gradi muovendo da ciò che resta del Lingotto o da ciò che sarà delle fantasmagoriche Ogr, e fissare il Po in secca, non più alimentato da ghiacciai in ritirata, per capire che il triangolo economia-società-politica sarà tagliato trasversalmente dalla crisi climatica. Indietro non si torna.
Crisi che non interroga solo le filiere del cibo, ma la geografia stessa dell’insediamento umano: è un tema non di metropoli ma di “metro-montagna”, per rubare l’espressione a De Matteis. Non a caso Lega Ambiente qui ha presentato il suo rapporto sulla piattaforma alpina. Guardando più lontano, al mondo dei vinti a suo tempo raccontato da Nuto Revelli, quando franava dalle terre alte, con i suoi vuoti antropici, in basso verso la Michelin a Cuneo o la Fiat a Torino, per aiutarci a capire non solo ciò che è stato, ma ciò che forse sarà. E qualche territorio ha capito per tempo. Come la provincia Granda e le Langhe, in cui la Ferrero si è fatta globale senza desertificare la collina e dove virtù civiche e corpi intermedi hanno attrezzato il transito dalla “Langa della Malora” (Fenoglio) ai successi del Barolo, al laboratorio critico del cibo innescato da Carlin Petrini con Slow Food, che ha contaminato la nuova leva di produttori. Invisibili fili di cultura olivettiana che si ritrovano ad Alba o alla Lavazza, o in quella Biella che riconverte il tessuto premium in chiave green, in dialogo con il territorio. La gestione del “dopo Ford” ha molto da insegnare su come ci si mette in mezzo tra il pieno ordinato che non c’è più, e il vuoto da riempire di tracce di sviluppo in divenire. E qui dove pure la tecnica è religione civile officiata dal Politecnico, si coglie più che altrove la consapevolezza per cui export e tecnologie 4.0 non basteranno ad attrezzare il campo dello sviluppo.
L’andare dal pieno ai vuoti da riempire ha lacerato la trama delle classi e l’ordito dei ceti, da cui è emerso un terziario riflessivo che ha cercato di attrezzare il cambiamento, ma anche di contrastare la desertificazione di periferie e territori al margine, come sa chi prova a fare progetto di comunità a Mirafiori. Questo terziario riflessivo erede della cultura alta che fece di Torino, a partire da “americanismo e fordismo”, il nodo editoriale e la punta avanzata della riflessione sul e del secolo breve, ha cercato con il Salone di farsi polo del libro. Un divenire diffuso di lavoratori della conoscenza, con imprinting umanistico e ingegneristico che ha anticipato nelle nostre città, Milano compresa, le pratiche dei tanti messi al lavoro nel tessere e ritessere economia e società tra il pieno e il vuoto. Vorrei dunque chiudere invitando a guardare a Torino e al Piemonte con l’umiltà del guardare e del cercare, per andare oltre il presentismo inoltrandoci verso l’altrove che ci attende.