Saperi e competenze di chi inventa i nuovi luoghi che abiteremo
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Con il mio minimalismo lessicale da microcosmi traduco il fantasmagorico titolo del libro di Elena Granata Placemaker nel più provinciale “Il segna posto”. Spero non si offendano Elena e quelli che “segnano il posto” inteso come luoghi, come spazio del vivere, dell’abitare, del lavorare sul territorio nell’epoca dei flussi dell’iper modernità che impone il titolare con il linguaggio dei flussi: Placemaker. Il sottotitolo spiega: sono gli inventori dei luoghi che abiteremo. Anzi, il libro va letto come segno di speranza, oserei dire di rivolta, di quelli che stando in basso e che hanno come destino il subire e vogliono un posto a tavola dove dire e far dire la loro a chi abita la città che viene avanti disegnata dai flussi e anche la pandemia è un flusso («il virus grande urbanista») che ha fatto «sociologia delle macerie» di tanti fantasmagorici progetti urbani da archistar.
Sembra un libro di architettura ma è molto di più, di sociologia urbana e territoriale almeno per me. Nel suo scavare e raccontare quel pullulare di vite terziarie minuscole che, ibridando saperi e competenze da “architetto condotto” in empatia con i luoghi, con la coscienza di luogo, ci evoca quel sommovimento operoso di un margine che si fa centro, ricercando senso del progetto, direbbero gli architetti, dai piccoli comuni alle città medie alle periferie e ai centri delle aree metropolitane da scomporre e ricomporre. Il tutto evocando la mobilitazione e l’interrogarsi del mettersi in comune, del fare comunità adeguata ai tempi nella metamorfosi della città e del territorio che è fatto di intreccio, non di separazione tra margine e centro.
Elena non è sola. Alla Biennale, Cucinella, a proposito di margine, ha raccontato “Arcipelago Italia”; Melis quest’anno ha evocato “Comunità resilienti”; Bertorelli nel centenario di Zanzotto, il poeta dei luoghi, ha allestito una mostra su «comunità e paesaggi sovrimpressi dalla iper modernità» a Solighetto di Pieve di Soligo, tanto per citare grandi e piccoli luoghi. È un intreccio, una ibridazione non solo tra i territori e la città, ma di competenze e saperi come ci spiega la Granata nel suo riconnettere con «una urbanistica tattica» i boschi delle terre alte con i social network dei vicini di casa con la rigenerazione dei luoghi scartati nel farsi della città infinita “patriarcale”. Qui introduce la questione di genere dove la cura, la prossimità, non è «semplice corrispondenza donne-micro comunità», ma sguardo politico citando la rottura del tetto di cristallo delle sindache di Parigi, Barcellona, New Orleans che hanno sentito e colto il sommovimento dell’inventore di luoghi che «non è un designer, non è un architetto», ma racconta e chiede alla politica la città che viene. Ma allora che cos’è?
Elena ce li racconta come donne e uomini progettisti e realizzatori di prototipi dell’abitare in quella nebulosa di terziario critico e riflessivo che mettono al lavoro sul territorio la conoscenza globale in rete a base urbana appresa nelle università. Contaminandola con animazione sociale, pedagogia da maestri di strada, ambientalismo, informatica, creatività, cura del paesaggio…imprenditori di sé stessi quando va bene. Spesso li ho raccontati nella rete informale di un cognitariato che cerca di tenere assieme senso e reddito alimentando con l’abbondanza del primo la scarsità del secondo. Forse il Placemaker è un generalista un po’ «ecologico, trasgressivo, estroverso per natura» nel suo saper connettere ponendo le domande e capendo la risposta sociale, il molteplice di una composizione sociale urbana e territoriale in metamorfosi. Un po’ come un tempo definii generalista “gli agenti di sviluppo” nel loro promuovere e animare lo sviluppo locale guardando più alla domanda che all’offerta della crescita dall’alto e dal centro. Con una discontinuità nell’essere connettore generalista.
Se prima ponendo al centro del saper chiedere capendo la risposta si poneva al centro la fiducia nello sviluppo, oggi, Aldo Schiavone ci insegna a proposito di progresso, che «abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo: l’urgenza di una filosofia che ci consegni un’immagine e un’etica dell’umano che sappia andare oltre l’individuale» e poi aggiunge che questa è «una delle condizioni prioritarie per poter tornare a pensare al futuro in termini di progresso». Non saprei dare altra definizione dei saperi, del saper fare e dei valori dei tanti che si sbattono con un’eterotopia da “inventori dei luoghi che abiteremo” nelle tante oasi proliferanti in microcosmi del proviamoci. Il libro della Granata ne dà dignità accademica: dal Mit dove le competenze sono ibride, a Londra, alle Americhe arrivando a Parma e Guastalla sino alle catacombe di Napoli che si fanno impresa sociale. Dopo averlo letto credo che mi accomuni con l’autrice una domanda che resta lì sospesa: basterà questa intelligenza connettiva a connettere le oasi in una carovana che chieda e ottenga futuro?