Le imprese non bastano: i territori devono tornare a pensare
Recensione su Lombardiapost.it al libro ‘Oltre le mura dell’impresa‘
La crisi di Milano, un Veneto senza capitale, l’Emilia che diventa modello. Un libro di Aldo Bonomi invita ad andare oltre le mura dell’impresa. Per ricostruire un tessuto sociale a rischio e per sollecitare le classi dirigenti a tornare a progettare futuro. Missione non impossibile, come dimostra il caso Trieste
Un recente libro curato da Aldo Bonomi, Oltre le Mura dell’impresa traccia le trasformazioni in atto nei territori del Grande Nord. Un’operazione encomiabile perché da tempo, e solo in maniera frammentaria, nessuno più compie quell’opera fondamentale di leggere i mutamenti dei territori produttivi. E’ una premessa necessaria per progettare il futuro di un Paese che di “microcosmi” (come li definisce Bonomi) si compone e le cui geografie dello sviluppo, basti pensare al declino di città come Torino o di regioni come le Marche, passano quasi inosservate.
La premessa del libro di Bonomi fin dal titolo è chiarissima. Bisogna guardare oltre le mura delle imprese per gettare lo sguardo alle periferie, ai territori marginali, al frastagliato mondo del volontariato, a quello che rimane del sindacato e delle associazioni di rappresentanza. Perché è evidente che le imprese da sole non bastano a generare sviluppo e coesione sociale. Ma, soprattutto, dal punto di vista delle stesse imprese, l’assenza di questi fattori territoriali frena il loro stesso sviluppo. Basti pensare alla questione demografica e alle ripercussioni che la denatalità comporta nel reperimento di figure professionali; oppure alla questione della formazione, dove i tentativi di costruirsi in proprio le Academy si scontrano con un sistema di formazione scolastica e universitaria autoreferenziale.
Nella lettura dei gruppi di lavoro messi in campo da Bonomi alcuni spunti sono decisamente interessanti, soprattutto quelli alle trasformazioni di Milano e della Lombardia, altri corretti nel fotografare la realtà, ma forse con qualche carenza sul piano interpretativo.
Su Milano la capacità di lettura appare davvero notevole. Una “metropoli” nella quale sono individuati tre cerchi: quello all’interno delle vecchie mura, una fascia intermedia e poi la Milano larga che va da Pavia alla Brianza e poi a Bergamo. Cosa stia accadendo alla “capitale del Nord” è presto detto. Lo smart working, al pari di quanto accadde a Mirafiori, sta lasciando semideserti i grattacieli simbolo dell’epoca della rinascita. Le trasformazioni in atto nel mondo dei servizi dovuti all’avanza re dei processi di digitalizzazione, costringe a ripensare spazi e funzioni. Nessuna illusione che “tutto tornerà come prima”, anzi. La città deve essere ripensata, rimodellata, ricostruita, a partire, dice il libro, dal secondo e terzo cerchio che definisce la città. Cioè, diciamo noi rivolgendoci alle riflessioni di Stefano Micelli, ripensando un modello tipicamente metropolitano, nel quale la concentrazione di servizi ad alto valore aggiunto, si raggruppa nelle aree ricche della metropoli, mentre la manifattura viene espulsa e abbandonata ai margini.
Nel libro il discorso si fa più complicato quando guarda al Nordest: la lettura che ne fa Luca Romano dimostrerebbe che è un territorio che non ha bisogno di una capitale. Premesso che, svanito il progetto politico di Giorgio Lago, il Nordest davvero non c’è più, e che Trentino e Friuli Venezia Giulia sono diventate due regioni più simili alla Liguria che a quelle del triangolo Lover, l’attenzione deve concentrarsi sul Veneto. Ma l’analisi elude quello che a noi sembra il punto vero della questione, messo in luce nel corso degli anni da osservatori attenti come Massimo Malvestio, Alessandra Carini e Francesco Jori che, già oltre un decennio fa, denunciavano la drammatica assenza di una classe dirigente.
Il Veneto è infatti una regione che riesce a mantenere il secondo posto (dopo l’Emilia) tra le regioni più produttive solo ed esclusivamente grazie al suo tessuto di imprese. Oltre le mura di quelle imprese, purtroppo, non avviene più nulla. Perse per responsabilità proprie le banche, le assicurazioni, le fiere e quasi tutte le fondazioni bancarie, l’unica cosa che ha saputo fare il Veneto negli ultimi anni è stato esprimere la sua totale impotenza attraverso un referendum secessionista che, come era ovvio, non solo non ha portato da nessuna parte ma ha reso evidente la dimensione autoconsolatoria che – e su questo Romano ha ragione – che permette a una politica proiettata su una dimensione puramente comunicativa di rappresentare in maniera pressoché totalitaria la frustrazione di chi si è fatto sottrarre la propria ricchezza dai propri stessi paladini (che si chiamassero Bedoni, Zonin, Consoli, Biasi o De Poli non importa).
Oltre le mura dell’impresa c’è dunque poco o nulla, e questa non è una buona notizia. Soprattutto in quei mondi esterni all’impresa nei quali Bonomi cerca di rinvenire delle tracce. Un volontariato generoso ma privo di progettualità, un sindacato capace di tutelare solo gli iper garantiti del pubblico impiego o i pensionati, corpi intermedi dediti più a ricercare fondi pubblici per sopravvivere che non a rappresentare i loro iscritti e a colmare le lacune della politica.
Da questi mondi, purtroppo, nulla emerge da tempo e non si trovano tracce che qualcosa di diverso possa accadere nei prossimi anni. Veneto e Lombardia su questo fronte sono purtroppo accomunati. Le Olimpiadi 2026 Milano – Cortina ne sono per certi versi il simbolo più evidente. Un progetto da eventologi, buono per prendere le prime pagine dei giornali, ma che non ha alcun respiro progettuale nel riqualificare né i territori centrali, né quelli marginali della montagna. Così, elettoralmente, Beppe Sala e Luca Zaia passano il tempo ad autocompiacersi di vittorie elettorali giocate senza neanche un vero avversario piuttosto che affrontare i reali e concreti nodi che stanno frenando lo sviluppo dei loro territori. E che Lombardia e Veneto, se non in declino, viaggino con il freno a mano tirato, lo dicono i dati economici e demografici, soprattutto se confrontati con quelli emiliano – romagnoli, unica regione che, anziché confrontarsi sul piano nazionale, si sta ponendo il problema di misurarsi con le grandi regioni europee.
Ma la problematica che il libro di Bonomi solleva non va ignorata. Perché questo libro prova a dare uno scossone a quei mondi senza i quali l’impresa non può crescere. Cioè alla politica, a chi è chiamato a fare rappresentanza, a chi opera nel sociale. Il libro diventa così un richiamo a tornare a pensare e a progettare futuro. E che sia possibile farlo ce lo raccontano due territori secondo due modalità totalmente diverse: l’Emilia-Romagna e Trieste.
Della regione governata da Bonaccini il libro fa emergere un aspetto rilevante. Accanto all’emergere di imprese tanto vitali quanto dotate di una robusta visione capace di valorizzare le relazioni con il territorio, si accompagna una politica regionale che non solo le accompagna costruendo identità di territorio, ma indirizza alcune istituzioni fondamentali, come l’università, nel procedere a proficui scambi e collaborazioni che producono operazioni come il Muner, che aiutano la competitività e la crescita di interi distretti. Le conseguenze di questo approccio porta a crescita demografica, dell’export e delle stesse imprese. Certo non tutto è oro quel che luccica, ma tutti gli indicatori segnalano che la coesione sociale e crescita che l’Emilia sta producendo è davvero ormai non “un” modello, ma “il” modello di quanto Bonomi teorizza da tempo.
Il caso di Trieste è invece importante per capire che avere classi dirigenti di scarso valore non è un accidente della storia, ma dipende anche da scelte che si operano concretamente nella selezione della stessa. L’arrivo di un manager pubblico alla guida del Porto ha permesso a quella città di invertire una rotta verso il totale declino che sembrava segnata. Un po’ come è avvenuto in Lombardia con l’arrivo di Letizia Moratti alla guida della sanità lombarda o di Giorgio Gori a sindaco di Bergamo. Insomma, tornare a progettare un futuro armonico si può, e dipende da una presa di coscienza che il libro di Bonomi contribuisce a costruire.
Infine un’ultima osservazione. Guardare oltre le mura dell’impresa non è compito che si può svolgere individualmente. I primi a doverlo fare sono ormai gli stessi imprenditori che, come avvenne a Parma in occasione del crollo sistemico che portò alla prima giunta Pizzarotti, devono guardarsi in faccia tra loro e decidere se restare arroccati nel loro fortino per prolungare l’agonia o mettersi in gioco per supportare (e più spesso spingere) politiche che guardino al futuro. Non dichiarandolo in convegni o assemblee confindustriali, a cui non seguono mai i fatti, ma mettendoci idee, denari e soprattutto uomini e donne capaci di non farsi omologare al pensiero dominante. Che è quello secondo cui, anche di fronte a crolli sistemici, pur di non creare disturbo al manovratore di turno, racconta che va tutto bene e che tutto tornerà come prima.