Una comunità larga per reggere l’urto della metamorfosi
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Pochi giorni fa ho partecipato a un incontro con ricercatori, manager, progettisti sociali, dirigenti del terzo settore su Milano. Ne è emersa una lettura molto meno continuista di quanto la rappresentazione mediatica dell’esito elettorale abbia suggerito, con alcuni grandi temi. Partiamo dalla metamorfosi delle economie dei flussi e dai grandi progetti urbani. Milano intesa come regione urbana, è l’epicentro italiano di un ciclo neo-industriale che comprende la riorganizzazione tecnologica delle filiere manifatturiere a nord e nell’area pedemontana, e l’emergere (accelerato dalla pandemia) di nuove industrie della riproduzione sociale e umana, nelle quali cioè la produzione della città fisica e la (ri)produzione della vita urbana e sociale sono parte della stessa catena del valore: università, ospedali, utilities, fiere, piattaforme di delivery, grandi progetti di rigenerazione urbana. I nuovi protagonisti sono fondi sovrani e grandi fondi pensionistici, Pnrr compreso, con un legame stretto fra trasformazione del welfare e delle città.
Questa “metamorfosi inconsapevole” può favorire politiche pubbliche dell’abitare che abbiano una visione di lungo periodo per la Milano che verrà. Purché consapevoli che la città non è soltanto spazio di funzioni, industrie, capitali, ma una società abitata da soggetti con i loro corpi, bisogni, diritti, soggettività, una nuova composizione sociale alla ricerca di rappresentanza essendo “piuttosto silenti” i corpi intermedi tradizionali anche loro in metamorfosi. A Milano ormai le grandi rappresentanze giocano un ruolo profondamente diverso da quello del ’900: meno cinghie di trasmissione della domanda sociale, produttori di identità e più corpi intermedi che mediano nella sfera degli interessi il rapporto tra le economie dei flussi e la politica. Rimane aperta la questione del vuoto di rappresentanza in basso, dove si scaricano le tensioni tra la crescita verticale della città dei flussi e le faglie di una composizione sociale in bilico tra polarizzazione e (ri)cetomedizzazione. Mi pare che l’esito elettorale con il plebiscito per il sindaco uscente e contemporaneamente oltre metà degli elettori astenuti, ci mostri il rischio che solo una “società stretta” composta da una società civile riflessiva, continui a partecipare alle vicende della città, mentre una parte cospicua della moltitudine urbana scivoli fuori dall’arena pubblica, come il mercurio quando il termometro si rompe.
Oggi nel vuoto della rappresentanza, a intermediare le domande sociali nei quartieri è direttamente l’intellettualità terziaria diffusa, composta da progettisti sociali, creativi, urbanisti, ricercatori, operatori sociali che agiscono entro i quadri delle politiche a progetto. È lì, che ci sono embrioni di un nuovo termometro politico: nei quartieri le reti degli eventi e festival diventano le arene pubbliche in cui si prova a formulare un dibattito. Da lì partono idee sul bisogno di un abitare sociale, cercando di coalizzare le molecole associative che si muovono sul territorio. Vedasi per capire il recente libro di Elena Granata Placemaker Gli inventori dei luoghi che abiteremo. È un processo in formazione con l’esigenza di tenere assieme Milano con “le altre” città e con il capitalismo intermedio del Nord. Un fenomeno positivo certamente, ma mi domando se sia sufficiente per ricostruire nuovi canali di trasmissione democratica, nuovi termometri politici che diano base sociale alla politica nella metamorfosi carsica dei populismi. Il populismo come termometro politico, pare silente nelle sue tre grandi varianti dell’individualismo proprietario, del sindacalismo di territorio e della democrazia diretta o del cittadinismo. Anche da qui il nuovo disincanto politico di massa.
A Milano occorre allora tornare a leggere una composizione sociale in cui nei quartieri c’è di tutto, dai creativi precari fino agli ultimi della Caritas, passando per il corpo sociale del lavoro in via di sfarinamento. La pandemia ha messo al centro salute (corpo), lavori, natura, abitare e competenza, come bisogni collettivi e personali a cui non si rinuncia volentieri. C’è il rischio che si apra uno iato tra l’offerta di beni collettivi data da una società politica a legittimazione stretta, e la “società larga” a domanda crescente di qualità sociale e ambientale nei quartieri. Quando il mercurio della moltitudine esce dal termometro politico, è forte il rischio che si apra una stagione di conflitti “tristi” nell’indeterminatezza del progresso. Fondamentale per temperare questo rischio è che la nuova generazione di intellettuali mediatori-innovatori, non sia lasciata sola a reggere l’urto della metamorfosi sociale, costruendo quella che io chiamo una “comunità larga” dove oltre al sociale c’è il sindacato, le rappresentanze del tessuto produttivo, le economie di prossimità. Dopo la retorica della “città stato” e della città verticale, va raccontata la città policentrica, ricostruendo tessuto orizzontale, quartiere per quartiere.