Quando il territorio ci interroga su come «mangiare il futuro»
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Ricordiamoci che nella pandemia la corporeità ha riscoperto l’essenzialità del mangiare, abitare, comunicare. Nel triangolo delle fiere Milano-Rimini-Verona passando per Bologna baricentro di aggregazioni e alleanze, si è appena tenuto Cibus a Parma, si proseguirà con MacFrut a Rimini, poi con la fiera avicola per tornare a Verona con Vinitaly in un racconto della civiltà materiale e della dimenticata ruralità che irrompe nell’economia del quotidiano. Civiltà materiale e lunghe derive territoriali che s’incontrano con il capitalismo delle reti: non sono forse questo le fiere in metamorfosi e la logistica che porta i prodotti agricoli sugli scaffali della Gdo, nella ristorazione e nelle nostre case? Non si può volare dal campo alla tavola imbandita, prescindendo dalla terra, intesa come bene ecologico. La green economy è anche questione contadina, di metamorfosi della ruralità. La piattaforma agroalimentare padana o quella del pomodoro tra Salerno e Foggia mettono a fuoco uno scenario nel quale s’intrecciano il massimo di industrializzazione e il massimo di mediocrità neo-schiavismo. Non basta tracciare filiere produttive. Occorre ricostruire piattaforme che ridisegnano il rapporto antico città/contado. Occorre scomporre e ricomporre quel “Volgo disperso” al lavoro nelle piattaforme che supera i 3,5 milioni di occupati in più di 2 milioni di imprese. Non fermiamoci al dire con orgoglio da riscatto contadino che durante la pandemia la filiera agroalimentare estesa ha tenuto, confermando il ruolo anticiclico del settore. Guardiamo anche a dove Covid-19 ha interrotto la filiera Ho.Re.Ca. (Hotel, Ristoranti, Catering) se ragioniamo di piattaforme, così come interroghiamoci sulle difficoltà di reperire manodopera. Come per le piattaforme industriali, anche per le piattaforme agricole il nodo lavoro parte dai campi, incontra le migrazioni e arriva alle officine ipermoderne della distribuzione e della logistica. Siamo in mezzo ai flussi non solo economici, ma dell’antropocene che impone di tenere assieme sostenibilità economica, sociale e ambientale. Il che impone al mondo agricolo processi di metamorfosi, producendo dal territorio nuove forme di civilizzazione. Da qui anche il difficile equilibrio necessario nel Pnrr per tenere assieme digitalizzazione e crisi ambientale. Ignorare uno dei due corni del problema spinge a una modernizzazione con alti costi sociali e con ambigui o deboli esiti ambientali, oppure a una civilizzazione di nicchia sganciata dalla sostenibilità economica. Siamo lì, in mezzo tra il richiamo di un’agricoltura dei luoghi a rischio di marginalità e le fantasmagoriche promesse di coltivazioni nella logica dei flussi di commodity indistinte. Senza un ripartire dalla terra e dalle sue piattaforme agricole, difficilmente produrremo una coesione sociale adeguata al salto d’epoca che ci aspetta.
Le piattaforme agroindustriali del Made in Italy navigano a vista, cercando di consolidare le posizioni di mercato, costruendo una ragnatela del valore che provi a coniugare la biodiversità agricola dei luoghi, una nostra ricchezza, con le esigenze di competizione di gamma medio alta, incorporando sostenibilità ambientale e sociale. Nelle piattaforme serpeggiano i conflitti redistribuivi tra produttori, trasformatori e distributori che impattano sulle forme dei lavori in un mercato scarso di regole che ha nel prezzo l’unica arma di contrattualizzazione mediata in una ragnatela di intermediari commerciali che spesso comprimono i margini sotto la soglia della sopravvivenza aziendale. Non basta a far da contraltare a questo mondo opaco e crepuscolare lo storytelling dei ritornanti all’agricoltura e le tante sperimentazioni di economia circolare che recuperano tradizioni arricchite da narrazioni adeguate ai tempi del climate change e della domanda di sicurezza alimentare. Andare oltre le filiere dei prodotti e percepirsi come piattaforme territoriali che fanno ossatura del territorio da rigenerare, significa rovesciare il concetto di ruralità, riportarlo al centro, partendo dalle terre alte dei piccoli comuni, scendendo nelle terre basse dei distretti agricoli, contaminando la città. Significa tessere e ritessere valori e visioni complementari, da cui si parte ridisegnando il contado e le città. La Confederazione italiana agricoltori nel disegnare “Il paese che vogliamo” indica come percorso di rappresentanza “Il territorio come destino”. Indica il mettersi dentro la società con le sue contraddizioni che vanno da un ruralismo che incrocia le suggestioni della decrescita a quelle di un sovranismo autarchico sino al cosmopolitismo come ideologia dei flussi per un’industrializzazione spinta verso un prodotto standardizzato. Come si vede, le piattaforme agricole fatte di Terra e Territorio ci anticipano riflessioni che rimandano al nostro “mangiare il futuro”.