Un cantastorie e un poeta per le voci degli spaesati
La pandemia ha attraversato comuni polvere, città e metropoli lasciandoci tutti alla ricerca del paese che verrà
di Aldo Bonomi Microcosmi – Il Sole 24Ore
Mi chiedo quanto abbia senso occuparsi della microfisica dei sussurri in questa fase in cui, tutti presi dalla ripartenza, giustamente guardiamo assetati allo sgocciolamento delle opportunità da Pnrr. Dopo mesi, tanti, troppi per il corpo distanziato ma voglioso di socialità, programmiamo l’esodo dalle città del pieno verso il mare liquido o le terre alte del vuoto green dei comuni-polvere. A chi può interessare un «Microcosmo» dedicato a un cantastorie e a un poeta? Forse più utile un commento sulla ripartenza dei turismi con tanto di problemi e opportunità.
Eppure, consiglierei, a proposito di sussurri, di mettere in valigia e ascoltare e leggere per capire sia l’ultimo singolo del cantastorie lombardo Davide Van De Sfroos che il recente libro (Lettera a chi non c’era) del poeta Franco Arminio, originario di Bisaccia, in Irpinia d’Oriente. Credo sia utile farsi entrare dentro i sussurri che il poeta definisce «un silenzio appuntito» che prende voce con “Gli spaesati” del cantastorie. Nel risalire a salmone verso le terre alte delle nostre Alpi e del nostro Appennino, le terre del margine che con il loro vuoto sono diventate centro per le loro risorse ambientali, incontreremo gli spaesati dei piccoli comuni che, per dirla con Simone Weil, significa rimanere senza paese come i tanti “delle terre mosse” dai terremoti o dal dissesto idrogeologico di cui racconta il libro di Arminio, partendo dalla sua Irpinia passando per il Vajont e arrivando alla piana di Castelluccio. Una canzone e un libro che ci dicono che lì nelle terre del margine vive, lavora, una composizione sociale “abituata a tremare” per i terremoti, ma anche quando sussulta l’economia del margine.
Ora siamo in un tempo in cui i paesi possono essere un’opportunità più che un problema, scrive Arminio nell’introduzione. Alziamo lo sguardo ai paesi abbandonati, ma superiamo anche le vertigini da “mondo dei vinti” guardando al fondovalle solo come destino di un esodo senza ritorno. Vertigine che prende i paesani quando come “cauboi” scendono «nella valle dei semafori dove crescono i telefoni» canta Van De Sfroos. Anche nelle terre basse una coscienza di luogo in crisi organizza con imprese, città e ministri la Green Week (a Parma dal 5 all’11 luglio). Si discute tanto di green economy, di sviluppo sostenibile e di aree interne. Vorrei tanto dire al poeta e al cantastorie che lo sviluppo che verrà non toglierà più la sedia ai paesani-spaesati e che i paesi saranno opportunità. Ci tocca cercare futuro assieme. I tanti nelle terre basse del No Future del pieno urbano con i paesani-spaesati del No Future delle terre alte. Facendo dei sussurri, voce per ridisegnare le antiche differenze città-contado. La pandemia ha attraversato comuni polvere, città e metropoli lasciandoci tutti spaesati alla ricerca del paese che verrà. Cerchiamo assieme il codice del come saremo.
Che impatta e muta l’antropologia dei “paesani-spaesati” che mette in musica Davide Bernasconi, cantastorie con nome d’arte che sembra olandese invece preso in prestito dal dialetto dei montanari che sul confine facevano contrabbando: “quelli che vanno di sfroso”. Dialetto delle vallate lombarde e del lago di Como messo in ballate che lo hanno segnato, agli esordi, come leghista per una sinistra spesso immemore di Pasolini anche lui uno spaesato nella sua Casarsa. Invece anticipava i sussurri di quello che poi una sociologia più attenta avrebbe definito “il rancore del margine”. Portiamoli con noi. Non solo per le vacanze nei piccoli borghi riscoperti dalle archistar. In quelle che definiamo aree interne del “nuovo petrolio acqua-ossigeno-boschi verdi” i paesani-spaesati sono al lavoro nelle terre mosse per tessere e ritessere canta Davide, «fili sottili di un mondo che si scuce» con «vecchi lavori e sogni mal pagati» in quella che noi definiamo la manutenzione del territorio. Manutenere, tenere con le mani, è parola dentro le contraddizioni dell’ipermodernità fatta dal digitare in smart working dai borghi, ma con i piedi su una terra, una agricoltura e un paesaggio tenuti su dai muretti a secco. Il poeta e il cantastorie, guardando a ciò che resta, sono amari: nel capitolo «Nell’Irpinia di adesso» Arminio scrive facendone una poetica del ricordo: «Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco dei vivi ancor meno» e dei paesani senza paese Davide canta della loro fatica a rimanere: «Capiscono la fatica e gli sforzi della formica ma non capiscono come mai ogni volta che arriva il progresso gli toglie la cadrega (la sedia)». Li canta come «chiodi arrugginiti della storia nel loro riconoscere il nome dei posti ma non hanno il codice del come saremo». Vorrei sussurrare al poeta e al cantastorie che il come saremo è la questione. Non basta poetare e cantare il come era e come eravamo se i sussurri del margine non diventeranno parole e musica del come sarà.