Non è affatto dolce il naufragare in questo mare di dati
di ALDO BONOMI Microcosmi – Il Sole 24Ore
Ho trovato un libro utile per navigare In un mare di dati (Mondadori). Così è titolato e invita a navigare nell’arcipelago «per le politiche e quali politiche per i dati». La prima sensazione che trasmettono gli autori ben abituati a navigare entrambi – Giovanni Azzone, già rettore del Politecnico di Milano e presidente Arexpo Spa e Francesco Caio da Omnitel a Poste con consolidata esperienza manageriale – è quella molto utile di tracciare una rotta per i tanti per cui non vale l’adagio leopardiano «e il naufragar m’è dolce in questo mare». Anzi, la sensazione sociale nelle isole dell’arcipelago italiano è ben colta dagli autori quando avvisano i naviganti che «questo mare di dati ha impatti dirompenti sull’economia, sull’occupazione (…) sulla qualità della vita».
Non si può chiedere agli autori che ci dispensano i dati con passioni fredde, di occuparsi delle passioni tristi di chi con paura, guarda il mare che rimanda all’ignoto da attraversare con la burrasca del digitale che impatta selettivamente nell’antropologia analogica di chi è rimasto all’epoca dei mezzi scarsi e dei fini certi e si ritrova nel salto d’epoca della potenza dei mezzi senza saper più identificare i fini. Per me che mi ritrovo microcosmo per microcosmo a raccontare passioni tristi nell’incertezza dei fini sempre più in aumento nell’epoca delle retoriche dall’alto che indicano smart working, salto 4.0, macchine intelligenti, realtà aumentata, digitalizzazione come destino, è un libro non di futurologia, ma di realtà, nel suo dirci brutalmente che di fronte al mare agitato o impari a nuotare o affoghi.
Forse, sempre rimanendo nella metafora marina scelta dagli autori, mi permetto di osservare loro che per colmare incertezza e paura mi sarei aspettato un loro accompagnar di più l’incertezza sociale che attraversa l’epoca. Certo, lo dicono quando dopo aver navigato entrano nel porto della politica o per dir meglio, di quali politiche per i dati. Entrambi gli autori avendo attraversato università e imprese dell’arcipelago italiano conoscono bene sia le arretratezze e le differenze territoriali che le difficoltà del sistema Paese ancorato all’Europa che ci propone la sfida del Recovery plan molto basato sull’opportunità del digitale. Per questo, dopo una navigazione analitica nell’ipermodernità che avanza, ci propongono e propongono all’agenda politica «dieci proposte per un’Italia digitale».
Molte, ben sette su dieci, indirizzate verso un’auspicabile capacità statuale o di nuove autonomie funzionali di far discendere la potenza dei mezzi nelle paure e nell’incertezza dei fini sociali. Si auspica il costruire una infrastruttura nazionale dove concentrare (e tutelare) i dati sensibili, creando il presupposto normativo dei Civic data trust; formare il management pubblico; accelerare la digitalizzazione di strade e autostrade nello scenario dei veicoli a guida autonoma; accelerare l’attuazione dell’agenda digitale; dare impulso al sistema pubblico di identità digitale Spid e al fascicolo sanitario elettronico, a proposito di pandemia.
Raccomandazioni per la macchina statale e per la politica che gli autori auspicano sia in grado di creare presso il Parlamento una struttura per il technology assessment. Cioè, accompagnare l’impatto nella società e nella microfisica dei poteri, la potenza della tecnica nel salto d’epoca. Per questo gli autori danno tre suggerimenti per come agire nell’orizzontalità sociale segnata dalle passioni tristi: rendere gli uffici postali l’hub di accesso, cioè lo spazio di formazione spalmato sui territori ai servizi digitali per le persone prive di competenze. Bene, non sarà un caso se anche per il fallimento di mega macchine dei dati per le vaccinazioni, si è pensato a poste e farmacie. E anche alla creazione di quartieri dimostrativi dove sperimentare l’uso del digitale visto che parliamo di città in 15 minuti. E infine, un po’ tutti stanchi di didattica a distanza e di lavoro da remoto mi pare “rivoluzionaria” la proposta di inserire nelle scuole superiori la “settimana analogica” non per tornare indietro, ma per mettere storia, geografia, filosofia… a contaminare e fare un umanesimo digitale.
Non so se si è capito, ma visto dai miei microcosmi avrei preferito che questo libro continuasse su questo racconto orizzontale dando speranza ai tanti che non sanno nuotare in questo mare di dati. Come quando conversando con Francesco Caio di tessiture sociali e di prossimità mi precisava che l’infrastruttura civica ha bisogno di una serie di strutture immateriali, quindi di standard, di dati, di significati… e questo se non lo si cura non si fa da sola. Oggi ci troviamo nelle mani di grandi “giocatori” padroni dei dati che invece sono una “cosa” di proprietà pubblica. Un bene comune, riprendiamocelo.