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Prove tecniche di economia mista in Emilia Romagna

di Laura Solieri – VITA Magazine

Intervista al sociologo Aldo Bonomi, fondatore e direttore del Consorzio AAster che ha condotto la ricerca “Innovazione sociale, modelli e paradigmi tra Emilia ed Europa”: “L’innovazione sociale, per assumere utilità collettiva, deve uscire dallo status di specialismo professionale, ma diventare forza sociale che contamini le articolazioni della società e dell’economia, i poteri costituiti, diventando parte di una nuova società di mezzo”

Un percorso di ricerca che ha messo attorno a un tavolo istituzioni, imprese, associazioni e mondo cooperativo con l’obiettivo di individuare un nuovo modello di collaborazione tra pubblico e privato per dare risposte alle fragilità sociali che la pandemia ha messo ancora più in evidenza. Nella ricerca “Innovazione sociale, modelli e paradigmi tra Emilia ed Europa”, curato da Homina per Fondazione Democenter-Sipe nell’ambito del progetto europeo Social(I)Makers, con il contributo scientifico del Consozio Aaster, se da un lato il focus realizzato in Emilia-Romagna racconta che i tempi non sono ancora pienamente maturi per una economia mista, dall’altro il contesto pone tutti noi di fronte a sfide che potranno essere vinte solo con la condivisione di obiettivi e la co-progettazione di risposte tra tutti i soggetti della sfera pubblica.

Ne abbiamo parlato con il sociologo Aldo Bonomi, fondatore e direttore del Consorzio AAster, a cui abbiamo chiesto in primis quali sono le principali caratteristiche del nuovo modello di collaborazione tra pubblico e privato individuato dalla ricerca per dare risposte alle fragilità sociali evidenziate dalla pandemia.
«Ciò che abbiamo trovato intervistando sindaci, operatori sociali e corpi intermedi, è che la battaglia per reggere l’urto erosivo e polarizzatore della pandemia, la si è combattuta e in parte vinta sul territorio – illustra Bonomi – Lì si sono costituiti patti e reti locali in cui comuni, rappresentanze, fondazioni, hanno fatto da struttura per reggere e da coordinatori, ma le reti e l’operosità del sociale ha fatto da serbatoio di energie e da bacino di saperi per consentire alle politiche di raggiungere effettivamente persone e imprese nei quartieri. Se prima spesso il rapporto tra istituzione e organizzazioni sociali si svolgeva sul terreno particolare di ciascuno, l’urto della pandemia ha insegnato ad allargare (almeno in parte) lo sguardo fuori dal proprio orticello, in parte a co-progettare come rete sociale, non come singola organizzazione».

La ricerca di AAster è stata promossa da Fondazione Democenter e ha coinvolto un piccolo campione di rappresentanti di istituzioni, pratiche sociali, associazioni di rappresentanza, fondazioni e mondo cooperativistico. «L’indagine europea svolta tra sette paesi partecipanti e tra diversi partner e territori – spiega Bonomi – voleva indagare le basi per sviluppare una community transnazionale di protagonisti dell’innovazione sociale che scambiassero saperi e pratiche, con un’analisi dei bisogni di innovazione nei territori e sulle caratteristiche dei diversi ecosistemi di innovazione sociale comprendendo quattro figure: policy makers, finanziatori, imprenditori sociali, e mondo accademico».

Come lei sottolinea, quello di “economia mista” è un concetto allo stesso tempo di grande attualità e quanto mai da ridefinire, magari innestandovi uno sguardo sociale e territoriale. Cosa potete dire a riguardo dal vostro osservatorio e come fare affinché i tempi diventino maturi per applicarla?
Noi abbiamo provato a ragionare su due fronti. Il primo è quello del rapporto tra pubblico e privato, nel tentativo di trovare nuove metriche comuni tra capacità delle politiche di essere efficaci nel rispondere ai bisogni sociali e ricerca delle imprese di nuove fonti del valore. Abbiamo visto che su questo punto un buon approccio è praticare sperimentazioni in una logica di “comunità larga” della cura e dell’operosità, per così dire, che trovi un linguaggio comune e una cultura comune tra amministratori e imprese. Ad oggi un vero e proprio ecosistema di questo tipo non c’è ancora: ciò che è emerso sono orientamenti comuni sul terreno della sostenibilità e dell’economia green nel mondo della media impresa più strutturata, delle rappresentanze e dei sindaci. C’è una cultura comune fondata sulla presenza di valori condivisi e del valore condiviso, tra imprese, rappresentanze e amministrazioni locali. Un secondo fronte è invece una idea di economia mista come economia in cui l’operosità, l’intraprendenza, assumano forme sociali e collettive (di imprese di comunità). E’ un campo anche qui dove abbiamo raccolto la testimonianza di prime esperienze, che tuttavia appaiono ancora singole buone pratiche più che un movimento consolidato.

Quali sono le principali “tappe” della “via emiliana” verso l’innovazione sociale? E in particolare, che ruolo gioca il mondo del Terzo Settore in questo percorso?
Nel lavoro di ricerca siamo partiti da un punto fermo: cioè che l’innovazione sociale, per assumere utilità collettiva, deve uscire dallo status di specialismo professionale, ma diventare forza sociale che contamini le articolazioni della società e dell’economia, i poteri costituiti, diventando parte di una nuova società di mezzo, esito dell’alleanza tra pratiche innovative e istituzioni storiche e in grado di incrociare le grandi questioni collettive poste dai processi di modernizzazione. In caso contrario si rischia di rimanere un’interessante forma di storytelling di una fase nascente di buone pratiche creative, ma condannate invariabilmente alla piccola scala. Questa idea l’abbiamo testata sulla metamorfosi, ormai consolidata, di ciò che resta del “modello emiliano”, che va scomposta in tre traiettorie importanti: primo, la traiettoria delle politiche regionali di costruzione di un ecosistema dell’innovazione, che mirano ad accompagnare la verticalizzazione delle filiere produttive e a rafforzare la transizione verso una economia della sostenibilità e, più recentemente, dell’intelligenza artificiale e dei dati; secondo, la metamorfosi del ceppo storico del movimento cooperativo di matrice socialista, in transizione verso una pluralità di assetti, tra i quali compare anche il completamento della trasformazione delle grandi cooperative in imprese che sono espressione di un capitalismo umanistico a impatto sociale e/o in piattaforme cooperative di organizzazione della domanda di sicurezza sociale; terzo la traiettoria più propriamente definibile di innovazione sociale, che comprende la mobilitazione delle risorse di capacitazione civica – ancora densamente presenti nella società civile emiliana – per la creazione di nuove forme di economia collaborativa e della condivisione, di nuove politiche pubbliche territoriali e di nuove modalità di vita comunitaria nelle aree della periferia territoriale e urbana. Il Terzo Settore sconta in questa dinamica un po’ di appannamento, soprattutto nella relazione con il mondo dell’impresa.

Tra Emilia ed Europa: che tipo di modelli e paradigmi troviamo delineati?
Un primo elemento comune che è emerso, è che in tutte le realtà una forte consapevolezza sul tema dell’innovazione sociale deve ancora rafforzarsi. Un secondo elemento è che in tutte le realtà europee, prima ancora delle risorse finanziarie c’è bisogno di sostegni non finanziari: sensibilizzazione delle élite, tutoraggio, creazione e mantenimento di reti e comunità di stakeholders, hub di diffusione di saperi, e infine grande importanza della formazione e della produzione e trasmissione di saperi coerenti. C’è una grande richiesta di scambi e relazioni di collaborazione tra i diversi territori, di pratiche di apertura, di unire le forze e costruire reti per favorire l’apprendimento tra pari secondo una logica di peer learning tra innovatori sociali. Tutto ciò si è avviato ma deve ancora affermarsi.

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