Il prossimo destino di Milano? Governare i flussi
La risposta alla crisi della capitale meneghina sta nel sociale. Le reti materiali e immateriali, e i servizi sul territorio, le daranno un nuovo ruolo.
di ALDO BONOMI Informazione senza filtro
La vulnerabilità delle città come macchine economiche dei flussi sembra essere la lezione dello stress-test pandemico. Milano, per la sua natura di porta sul mondo, in Italia sembra essere una delle più colpite dal blocco delle reti globali. Il motore della crescita urbana ha grippato, tanto da far presagire a molti un’inversione dell’ultimo ciclo di crescita.
Milano non è finita: la sfida post COVID-19 è tra manifattura ed economia delle reti
In realtà non sono persuaso che le grandi città abbiano chiuso il loro ciclo, nonostante il pendolo sembri spostarsi dal pieno metropolitano al vuoto dei territori meno antropizzati, come mostrato anche dall’ultima classifica del Sole 24 Ore. Le tendenze si valutano sulla lunga durata dei processi, oltre che sulle rotture immediate. Sono convinto che il COVID-19 non sia un “cigno nero”, ma l’acceleratore di un nuovo ciclo, nel quale però le grandi città come Milano non saranno messe ai margini, ma dovranno – questo sì – ripensare profondamente la loro morfologia sociale, urbanistica, dei poteri, le loro traiettorie di crescita rispetto al ciclo appena chiuso.
La nuova Milano forse sarà meno pirotecnica e frizzante, probabilmente più concreta, magari più attenta alle connessioni con il territorio, e forse la sua crescita sarà meno brillante ma più legata ai bisogni collettivi dei suoi abitanti. Se così fosse, la città avrebbe fatto un passo indietro? Io non penso. Lo stesso sindaco Sala, che ha guidato la città nel ciclo della crescita attraente, si è posto il problema del rigenerare Milano e una composizione sociale stressata, in piena metamorfosi.
Forse il problema è che Milano deve (ri)cominciare a pensarsi come società oltre che come macchina produttiva funzionale all’attrazione dei flussi. Il che non significa imbrigliarli, i flussi, perché le città vivono di reti e di flussi. F. Braudel diceva che “sono le strade a spiegare le città”; ovvero, oggi, le reti materiali e immateriali, commerciali, reputazionali, produttive, culturali. Senza i flussi la città deperisce; ma i flussi vanno incanalati e utilizzati attraverso una regolazione forte, in grado di mettere la società postfordista nel mezzo, tra economia dei flussi e politica.
Anche la Milano verticale dei flussi e delle torri-simbolo rimane comunque una società ancorata alla materialità dei territori di insediamento e alle comunità dei suoi abitanti. D’altronde l’economia della città-regione è da sempre un inestricabile intreccio tra flussi della produzione manifatturiera, ancora fortemente presente e radicata, ed economie delle reti che connettono città e territori: ed è questo intreccio la forza di lunga durata della città.
Il progetto urbano di Milano va ripensato all’insegna dell’inclusione
Il problema che abbiamo davanti è però che la pandemia ha acutizzato la contraddizione tra la crescita verticale della città dei flussi e le faglie di una composizione sociale terziaria, che vive non da oggi processi di polarizzazione sociale ed economica.
Milano nel decennio precedente è stata rappresentata come una città cresciuta quasi a prescindere dal resto dell’Italia, grazie anche a un modello di governance urbana inclusiva orientata ad accogliere l’innovazione sociale, e a uno sviluppo che accanto alle trasformazioni intensive dei grandi progetti ha visto il moltiplicarsi orizzontale di trasformazioni diffuse e molecolari.
Le fragilità sociali, nella fase di crescita post-Expo, sono state attutite dalla capacità (storica) della città di assorbire le tensioni e le fratture del cambiamento, dallo sviluppo del carattere poliarchico e articolato dei suoi poteri e dei corpi intermedi, nonostante la forte crescita della nebulosa dei gig-work e dei lavori poveri alla base della piramide sociale. Quegli stessi lavori divenuti particolarmente visibili durante la pandemia come necessari al funzionamento dei circuiti sociali della città.
Con il COVID-19 la Milano delle macchine verticali del lavoro pubblico e dei grandi gruppi terziari, del manifatturiero collegato alle filiere globali, ha accelerato una trasformazione nell’organizzazione del lavoro che inciderà profondamente sulla forma della vita sociale urbana. L’impatto del lockdown sull’economia degli eventi, della cultura, del turismo; la remotizzazione del lavoro con lo smontaggio delle concentrazioni di lavoro terziario (di circa 600.000 unità la forza lavoro in smart working), non hanno prodotto solo mobilità meno congestionata, ma anche effetti di sfarinamento del terziario di servizio che circonda, alimenta e sorregge la verticalità della grande organizzazione, dei grandi servizi collettivi.
C’è il rischio concreto che la parte del capitalismo molecolare urbano meno inserita in filiere verticali scivoli nella condizione di un frammentato “volgo disperso”, moltitudine del disagio molecolare. E poi che impatto avrà il sovraccarico di funzioni che la remotizzazione digitale di lavoro e servizi scarica sulla dimensione privata delle famiglie e della domiciliarità? È evidente che si pone un grande tema di progettazione urbana e sociale per rafforzare la produzione di beni pubblici; per evitare l’esplosione di una questione sociale con striature luddistiche, come in parte è stato nel caso dei gilet gialli sull’asse città/territorio, nel caso in cui la sostenibilità non incorpori la questione della polarizzazione sociale.
La schizofrenia felice di una città
Il tema di quale intermediazione sociale e rappresentanza sia all’altezza di questa mediazione tra società e flussi, è la questione all’ordine del giorno.
L’aspetto rilevante è dunque la capacità della città di ripensare il proprio welfare per includere la frammentazione che la pandemia ha prodotto, in una nebulosa-pulviscolo del disagio di ristoratori, baristi, parrucchieri, commercianti, lavoratori dello spettacolo, precari del lavorare comunicando, gestori di discoteche in difesa del “distretto del piacere”, proprietari a cottimo con i camioncini della logistica, addetti alle pulizie in false e vere cooperative, e i tanti sommersi nell’economia informale.
Credo sia necessario pensare anche a un’economia che, oltre alla riaccensione dei grandi motori del capitalismo delle reti, sia orientata ai bisogni collettivi come casa, cura, ambiente e servizi di corto raggio, per soddisfare una domanda locale, magari senza produrre lo sfruttamento a base algoritmica della nuda vita della marginalità urbana. Va abbassato un po’ lo sguardo sulla composizione sociale, rendendosi conto dell’importanza di costruire filiere di prossimità che raggiungano anche le componenti invisibili.
Vedo una città positivamente schizofrenica, che guarda in alto, al governo dei flussi e dei big data e al valore sociale non solo privato che possono esprimere, e in basso, alle filiere dell’ultimo miglio. Agendo su due leve: non solo attrattività e scambi di flussi economici o di competenze, ma ripensamento e sviluppo di filiere di prossimità, fondamentali per consentire al tessuto urbano di reggere, composte da dirigenti scolastici, dei servizi sanitari, utilities, imprese sociali, attivatori di reti sociali, imprese artigiane, attori che costituiscono l’intelligenza collettiva stimolante la capacitazione diffusa.
Si tratta di affiancare alla maieutica dell’innovazione una inclusione a rete più estesa quanto alla capacità di impatto sociale. Rendere visibili gli invisibili, diradare la nebbia sociale della moltitudine senza classe per rendere punti dell’agenda collettiva lo smagrimento del ceto medio e la deprivazione di settori della città; tutto ciò riuscirà a emergere come il passaggio della Milano post COVID-19 rispetto alla Milano pre COVID-19? La città, al di là delle difficoltà, appare ben dotata di risorse di coesione sociale, infrastruttura del welfare ambrosiano ancora attiva, con innesti di attori e politiche di innovazione sociale per le quali la città è diventata un modello.
Il destino di Milano non è nella città ma nei territori
C’è poi un secondo aspetto sul quale auspicare una riflessione collettiva della città.
Milano è città anseatica per storia; diviene sempre più nodo di reti economiche e sociali nell’epoca del capitalismo della conoscenza globale in rete a base urbana. Milano coincide ormai da molto tempo con la sua piattaforma urbana estesa, anche se il più recente ciclo di crescita ha accentuato una polarizzazione tra economia della città centrale e delle piattaforme territoriali lombarde.
La pandemia dà a Milano l’urgenza di un senso nuovo di sé e delle sue relazioni con i territori, guardando forse con più convinzione a una Lombardia e a un capitalismo medio padano policentrico, composto di città medie e piattaforme produttive che hanno consolidato reti e connessioni su scala europea. Un sistema umano e sociale, oltre che infrastrutturale, che rappresenta la parte demograficamente più dinamica della stessa Milano che ambisce a estendersi.
Milano ha come destino non la competizione per risalire la classifica delle città globali, ma essere rete di sistemi territoriali per competere innervati da distretti, medie imprese e piattaforme: deve chiedersi se essere capitale della megalopoli padana oppure città che si relaziona in orizzontale con le città intermedie in una logica di servizio, capace di esercitare una funzione larga mediando tra l’Europa del burro e l’Europa dell’olio.
Significa ritessere il rapporto con il territorio, forse con qualche velleità competitiva in meno, ma con più attenzione alla composizione sociale della città complessiva, allargata. Nel post COVID-19 la smart city deve diventare sempre più una smart land.