Il futuro di Torino tra cura e operosità
Bagnasco, Berta e Pichierri hanno scritto un libro per chi indirizza la passione politica per capire la regolazione della città come nodo di reti
di ALDO BONOMI – Microcosmi Il Sole 24 Ore
Mi chiedo se, in tempi di grandi eventi a Roma e di mobilitazione delle competenze, non sia altrettanto utile partire da sé, tessendo e ritessendo percorsi di città e territori del sistema Paese. A questo lavorìo rimanda il libro di Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Berta e Angelo Pichierri su Torino. Tutti e tre convinti che quella città sia anche metafora dell’Italia, ci aggiungono un titolo interrogante: Chi ha fermato Torino? (Einaudi). Se qualcuno volesse leggerlo lisciando il pelo al populismo alla ricerca del capro espiatorio, lo sconsiglio subito. Lo consiglio a chi indirizza la passione politica per capire la regolazione della città come nodo di reti economiche e sociali delle lunghe derive della storia che interrogano «le persone, gli attori collettivi, le classi dirigenti a fare la storia, anche se in condizioni non scelte da loro».
Non me ne vorrà il maestro Bagnasco se volgarizzo la sociologia della regolazione nel banale mettere in mezzo la politica tra economia e società. In questo Torino, più di altre città, ci è stata maestra, l’unica company town italiana in cui la regolazione era data dal conflitto tra capitale e lavoro, raccontata da Berta anche nel depotenziarsi come valore di legame simbiotico nell’epoca di Marchionne. La regolazione, ma prima ancora lo sviluppo urbano con il suo pieno di fabbriche e periferie operaie, era data e segnata dal pendolo di quel conflitto tra capitale e lavoro. Era il secolo della fabbrica di cui tanto abbiamo scritto e capito guardando a Torino. Sarebbe venuto dopo il nuovo secolo, quello dei flussi con il ritorno sulla scena della città, non come ancella del fordismo, ma laboratorio nell’epoca della conoscenza globale in rete a base urbana. Qui scava il libro nel “ritorno della città come questione” che ai tempi della fabbrica aveva evocato anche il “prendiamoci la città “. E qui, mi sia permesso osservare, cambia anche il nodo della regolazione non più come mettersi in mezzo tra un’economia egemone che plasmava la società con una potenza ordinatoria delle classi, ma una regolazione in grado di mettersi in mezzo tra i flussi, la Fiat stessa con cui negoziare, fa notare Berta, e il ridisegnarsi della città. Una città dove si faceva questione non più il pieno, ma il vuoto; non più la Torino delle classi dov’era sufficiente chiedere dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei, dove abiti e magari come voti, ma la Torino della moltitudine, delle nuove forme dei lavori, dei servizi, delle periferie e delle forme dell’abitare.
Se ho ben capito Torino Internazionale come luogo di elaborazione della metamorfosi fu il tentativo ultimo di tenersi agganciati ai flussi con un progetto di rigenerazione urbana e pianificazione strategica «policentrica, politecnica e pirotecnica, olimpiadi invernali comprese». Così come fu un ultimo tentativo di recuperare capacità ordinatoria dall’alto il pensare la Torino della grande banca con le aggregazioni verso Milano, ricordando il mito di Mi-To, pensato un tempo sull’asse Fiat- Alfa Romeo, e oggi sull’alta velocità. Come fa notare Bagnasco il “ritorno della città” come progetto avrebbe avuto bisogno di più tempo e di maggiori risorse pubbliche gelate dalla crisi finanziaria.
Dopo questa fredda analisi sulla crisi della regolazione, ci aiutano sia Berta che Pichierri a riprendere a navigare. Giuseppe – con cui ricordo un dibattito torinese sul postfordismo in cui gli chiedevo se non fosse il caso di prendere atto che le nostre città avevano come destino non la competizione per risalire la classifica delle città globali, ma essere rete di sistemi territoriali per competere innervati da distretti, medie imprese e piattaforme – cita la Lavazza come modello industriale da cui ripartire. Pichierri, partendo dal Libro bianco sul nord ovest, critica le velleità di una città più attenta alle relazioni internazionali «esistenti o auspicate» che alla propria regione. Occorre ritessere il rapporto con il territorio e aggiungo – da territorialista convinto, parafrasando Saskia Sassen – che le città rischiano di perdere l’anima nella competizione globale, percependosi «più connesse tra loro che con i rispettivi territori». Ci tocca rimettere in mezzo il fare società magari con meno velleità competitive, ma con più attenzione alla composizione sociale da innervare con filiere dell’educazione, della conoscenza in campi non più trascurabili dopo Covid-19 come la cura e la medicina di territorio, il rinnovamento di ciò che resta, e non è poco, della manifattura e della grande eredità fordista qui più che altrove presente e da tenere come memoria viva di un saper fare l’auto che verrà con la valle dei motori giù verso la Via Emilia e con i subfornitori specializzati del Nord Est. Ce la farà Torino come dimostra la metamorfosi emblematica dei luoghi segnati dal passato fordista come le Ogr, destinate a essere nel “ritorno della citta” incubatore di eventi e startup, riconvertite in parte nella pandemia come luogo di cura. La citta che viene terrà assieme cura e operosità.