Una green society come cuscinetto tra crisi e politica
di Aldo Bonomi IlSole24Ore
La crisi climatica interroga il modello di sviluppo. Questo sostiene il Manifesto per una economia a misura d’uomo promosso da Fondazione Symbola. Interroga, raccogliendo adesioni, il fare impresa e il fare società. Sarà presentato a gennaio ad Assisi, terra francescana. Propone una sorta di “via italiana” alla soluzione della crisi ambientale. Parole come bellezza, comunità, coesione sociale che eravamo abituati ad associare a un modello di sviluppo, quello dei distretti (sarà contento Becattini) radicato nella storia dei territori, diventano il tramite concettuale per una nuova idea di progresso. Auspicando che la crescita non avvenga per consumo delle risorse, ma trasformando in valore, il limite ambientale. Questa la promessa della green economy. Il manifesto scommette che proprio l’Italia possa giocare un ruolo partendo da quelli che spesso sono stati considerati i suoi limiti storici.Una strada praticabile? Sì, a patto che si provi a rimettere con i piedi ben piantati nella terra e nel territorio l’idea della green economy. L’economia della terra, l’agricoltura, sta riorganizzando le sue filiere per trasformarle in grandi piattaforme produttive. Il cibo oggi è una merce sofisticata che incorpora i problemi dell’ipermoderno: fame, consumi e ambiente. Qui s’intrecciano il massimo d’innovazione (sperimentazione genetica, chimica fine, automazione, digitalizzazione…) e il massimo di mediocrità (neoschiavismo, false cooperative, alto impatto ambientale, pratiche di mercato sommerso…). Qui la dimensione delle identità locali passata attraverso la stagione dell’industrializzazione, si misura con le nuove forme di organizzazione produttiva e la dimensione delle reti del commercio, della logistica, dei saperi a configurare vere e proprie piattaforme territoriali agroalimentari. Un intreccio di opposti non solo territoriali, l’agricoltura al Sud e l’agroindustria al Nord, fattori di modernizzazione e fattori di civilizzazione. Non a caso le firme del Manifesto mettono assieme rappresentanze dell’agricoltura, dell’industria, della distribuzione, del mondo cooperativo e di una nuova civilizzazione agricola da ritornanti e da economie solidali. Passando alla manifattura, qui non si dà green economy senza la capacità di coinvolgere anche il capitalismo dei piccoli, il mondo dei lavori e dell’impresa in un Paese di territori e medie città.
L’Italia se vuol sviluppare nel tessuto profondo del Paese l’economia circolare, deve promuovere la tenuta e lo sviluppo delle smart land. La sostenibilità non può essere un flusso che dall’alto s’impone a una composizione sociale polverizzata che deve essere accompagnata a rigenerare la propria filiera del valore. Per evitare una sindrome da “gilet gialli” (tassa sulla plastica docet) occorre un lavoro sociale che provi a ricomporre intere filiere rendendone sostenibile la transizione sul piano sociale di processi molecolari da industria 4.0. Contaminando un artigianato e un commercio sempre più polverizzati soprattutto nelle città e uno strato di piccola industria sempre più inserita in filiere globali che ha già avviato percorsi di riconversione sostenibile molecolare. Anche qui occorre guardare alle piattaforme produttive e alle loro filiere. Troppo spesso ci siamo soffermati solo sullo storytelling dei nostri campioni e delle nostre startup che fanno green economy, algoritmi e industria 4.0, dimenticandoci del racconto dei tanti che subiscono la metamorfosi di questo cambiamento più come una minaccia che come un’opportunità. Le firme di Confindustria, delle rappresentanze delle piccole imprese e dei sindacati, fanno ben sperare che sia possibile ricreare meccanismi di comunità e di rappresentanza che consentano ai frammenti di composizione produttiva di sopportare e supportare, i costi del cambiamento se non vogliamo che la sostenibilità rischi di essere percepita come un’idea senza società.
È proprio questo il passaggio su cui dovremmo soffermarci a riflettere ad Assisi. Affinché la green economy diventi il terreno capace di produrre connessione sentimentale, occorre lavorare per costruire una green society. Una sfera sociale capace di tornare a includere in un’idea di prosperità green chi è uscito malconcio dall’impatto dei flussi globali. Una green society da mettere in mezzo tra politica in crisi, in attesa del concretizzarsi delle dichiarazioni green dell’Europa che verrà, e flussi dell’economia globalizzata. L’innovazione ambientale e sociale serve a questo.