Viaggio a detroit per capire Torino (e un po’ Taranto)
di Aldo Bonomi Microcosmi-Il Sole24Ore
Il libro di Giuseppe Berta Detroit, viaggio nella città degli estremi è un tondino di ferro di letteratura della metamorfosi industriale. Da consigliare ai millennial come romanzo di formazione per loro, sospesi tra il non più del fordismoe il non ancora delle auto a guida autonoma. È scritto con il passo dello storico d’impresa, con lo sguardo del flâneur, da sociologo delle macerie in ciò che resta della città fordista, la company town delle origini. Fa memoria di futuro alla generazione “dei senza libro” smanettanti nel presentismo dei social. Arriva con passo lento alla fabbrica. Prima, da sociologo urbano, guarda a ciò che resta nella città degli estremi. Scava, gratta l’emivita della ruggine, delle differenze spaziali e residenziali con attenzione ai sussurri degli ultimi e alle polarità estreme del ciò che resta. Evocando, non come utopia politica, ma come estremi «socialismo e povertà».
Si sente che cammina per capire anche la sua Torino della Fiat e il suo impegno recente da operatore di comunità, con il sodale sindacalista di un tempo Bruno Manghi, nel progetto di comunità a Mirafiori Sud. Per questo dedica spazio al Boggs Center di Detroit che ha come missione potenziare il protagonismo delle comunità partendo dai quartieri. La definisce un’agenzia di comunità. Poca cosa le comunità di quartiere dell’oggi di fronte alla potenza ideologica inglobante del fordismo di ieri. Che Berta ritrova nell’opera che definisce «la Cappella Sistina della contemporaneità»: il gigantesco murales di Diego Rivera, simbolo dell’alleanza tra produttori che Ford volle all’Institute of Art come rappresentazione della città che aveva creato. Così come al Ford Museum si ritrova la lunga deriva delle macchine: dai trattori alle automobili agli aerei del secolo americano. Per capirlo serve la madre di tutte le fabbriche. Highland «cento anni fa era il cuore pulsante della società di massa in divenire, un colosso produttivo senza uguali negli Stati Uniti e nel mondo. Nel 1916 vi lavoravano 32mila operai e nel ’24 erano 42mila». Visitandone lo scheletro lo storico di impresa tratteggia due visioni folgoranti, estreme: quella di Céline Al termine della notte «che ravvisa nella fabbrica un luogo che fa scempio della natura umana» e quella di Gramsci in Americanismo e fordismo che ne legge le implicazioni sociali e politiche.
Gramscianamente Berta arriva alla società segregata qui più che altrove dal razzismo, con i neri in fonderia nel girone della fabbrica, la segregazione razziale sugli autobus e le lotte per l’uguaglianza di Martin Luther King, di Malcolm X che partiva dai ghetti delle differenze sino alla grande rivolta del ’67 che ebbe Detroit come epicentro. Pagine da rileggere oggi, ai tempi delle moltitudini migranti. Poi le lotte operaie e sindacali per diritti civili e sociali, per entrare nelle fabbriche prima alla General Motors e poi alla Chrysler sino all’ultimo baluardo, la grande fabbrica di Ford che diceva: «Il sindacato è la cosa peggiore che si sia visto sulla faccia della terra». Fabbrica conquistata con la mitica lotta alla porta 4. Da qui una stagione rosea per il grande sindacato dell’auto in sintonia con la politica dei democratici. Con il nostro linguaggio europeo ci si chiederebbe oggi, cosa resta di quel patto socialdemocratico nel postfordismo della grande crisi dell’auto salvata per interventi “socialdemocratici” da Obama? Rimane un sindacato ancora presente e forte nelle fabbriche ristrutturate, ma con piattaforme più larghe verso i nuovi lavori e i nuovi mestieri. Da noi si discute di sindacato “di strada” e “di comunità”. Siamo all’oggi, a quel che resta di Motor City. Che è ancora “ la tana del lupo” di Ford, Gm, e Chrysler (Fca) che il visionario Marchionne inserì, mutandone l’identità, nelle crepe della globalizzazione di queste imprese postglobali. Qui rinserrate nel ripensare il futuro della mobilità e del capitalismo delle reti nell’era dell’antropocene di cui, la ruggine urbanistica e sociale di Detroit, è simulacro. Volgendo lo sguardo e visitando il Renaissance Center di Gm con il suo nuovo skyline come laboratorio del non ancora, qui nella tana del lupo, le imprese dell’auto postglobali non si rappresentano più solo come produttori, ma come soggetti in grado di elaborare soluzioni ai problemi della mobilità contemporanea, con attenzione da green economy ai temi della compatibilità ambientale. Da qui, nel cuore del fordismo di un tempo, si guarda alla California dell’auto a guida autonoma e alla Cina avanguardia della ricerca sull’auto elettrica.
È un libro da leggere per il non ancora che viene avanti. Perché senza retorica futurologica, Berta ci immette nelle contraddizioni geoeconomiche e geopolitiche della metamorfosi industriale. È consigliato per capire e cercare di uscire dal drammatico passaggio in cui si trova Taranto: la città dell’acciaio. È dedicato come lascito di speranza da Berta alla sua Torino. Lì dove partendo da Mirafiori Sud ci dice che «paragonato all’East Side di Detroit qui la metamorfosi sociale e il nostro welfare da città europea ha tenuto di più». Purché si guardi alle tracce di rinascita tenendo assieme metamorfosi della fabbrica, ricerca e progettazione dei Politecnici, ricostruendo tracce delle comunità del vivere e dei lavori. Questo ci porta a ragionare sul rapporto di Torino Motor City con Milano, guardando alle Motor Valley diffuse sull’asse emiliano-veneto nell’urbano regionale del grande Nord. Ma questo è un altro libro.